L’Architettura della Colpa

Esistono luoghi particolari dove le diverse forme d’arte, i differenti linguaggi e le specifiche modalità operative sembrano trovare una misteriosa ma necessaria congiunzione nel segno della contiguità e della complementarietà. 

È il caso di questo piccolo libro “sacro” dove ciascuna delle due autrici, ognuna per la propria parte e con il proprio modo personale di attraversare territori immaginari, propone un unico racconto fatto di segni minimalisti, di simboli, di parole e di frasi folgoranti ed evocative.

Se il genere dell’illustrazione della letteratura ha precedenti notevoli, ma che quasi sempre restano in subordine rispetto al testo, qui viene compiuto e realizzato un lavoro in perfetta sinergia: un’unica opera dove il visivo, fatto di immagini iconiche e calligrafiche, si sovrappone e si compenetra con il testo, evocativo a sua volta di immagini.

Un’unica opera dove gli ex voto, le icone, i segni, i graffi di Ginevra Ballati catturano il nostro sguardo e lo imprigionano attraverso delicate, evocative, astratte, sensibili, misurate immagini, mentre le parole, le frasi, le imprecazioni, i dolori di Chiara Daino si rincorrono, si richiamano, cadono (si rialzano), ci vengono incontro, giocano con il lettore e la lettrice catturando la nostra mente. 

E così si compie un fantastico processo alchemico il cui risultato è Dea Culpa.

Godetene tutti!

Pietro Millefiore

Genova, 13 dicembre 2023

Dea Culpa [Breviario per l’Anima stanca]; di Ginevra Ballati e Chiara Daino; prefazione di Andrea Magno; postfazione di Marco Ercolani; Ursamaior Edizioni; 2023.
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La Nonna e il Macellaio [cotenna di Dea Culpa]

«Nonna, io amo il pirisciutto. Ho tre anni tre e nessuno mi risponde. Ho tre anni tre come i porcellini della storia, ma perché i grandi non hanno tempo per la mia domanda? Come finisce la storia? Dopo: che fine fa il lupo? E i porcellini, nella casa di mattoni, erano felici o litigarono? E il mio prosciutto, si dice così? Da dove viene? Da un porcellino che meritava di morire? Io ho sempre fame, ma non so se ucciderei un porcellino, ecco».



«Trottolino mio, è per questo che il BUON DIO ha inventato i Macellai. È forse colpa tua la decisione di un Dio onnipotente e onnisciente?».

«Non so, spero di no».

«Ecco. Te lo dico io e io non mento».

«E le guerre? Perché lo stesso Dio che ha inventato il Macellaio ha inventato anche le bombe?».

«Trottolino, il BUON DIO ha inventato il Macellaio, ma le bombe e le guerre sono invenzioni dell’essere umano e del libero arbitrio. Potrai capire Dio, ma sei troppo intelligente e troppo sensibile per capire a quali barbarie giunga la gente».

[Addentai il mio panino col pirisciutto, chiedendo più Macellai per tutti e meno Supereroi da fumetti].




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DEA CULPA: Bernardi e la riflessione che non è recensione



 Bastano tre calendari sulla schiena e già cominciamo ad assemblare immagini e parole, con la foga dei bambini che hanno trovato nel senso comune il nuovo giocattolo preferito. Cresciamo incastrandole fra loro come piccole, mostruose vertebre. Già ci condanniamo a passare l’età dei ripensamenti nel tentativo di disincastrare quelle vertebre schiacciate, sempre con la pretesa di farcela da soli (siamo tutti geni incompresi, n’est-ce pas?). Ma fin tanto che questa pretesa resta nel nostro spazio ridotto non può che portarsi dietro tutti i suoi problemi posturali, che ad ogni ticchettio d’orologio si fanno più granitici. 

 Potremmo approcciarci alle arti letterarie e visive con lo stesso amor proprio con cui ci si approccia a una fisioterapia, ma il più delle volte preferiamo schiumare bava con l’aggressività degli animaletti chiusi in gabbia: “troppi libri!”, “tutti artisti!”, “chi recensisce vuole essere recensito!”. Allarmati: siamo allarmati. Sempre nella convinzione che concedere spazio altrui debba necessariamente significare rinunciare a uno spazio proprio, senza neanche prendere in considerazione l’idea che – al contrario – possa allargarlo. Tanto più se parliamo di uno spazio ch’è un’apertura alare, che va dall’immediatezza dell’immagine alla stratificazione della parola.

 E come potrebbe generare spazio questo affastellarsi visivo-concettuale? Semplice: le arti letterarie e quelle figurative, malgrado le pressioni similmafiose che ricevono da ogni lato, possono ancora scegliere di non essere performative. Possono ancora esistere mefistofelicamente, come pura negazione dall’intrattenere le masse. Di modo che le varie chiare e ginevre di turno possano smembrarle, scarnificarle, ripulirle e riassemblarle nello spazio bianco dell’intimità. Il non assistere a questa operazione (che pure sarebbe gettonatissima nelle terrazze romane e nei garage milanesi) ci rende fortunatamente, sanamente suscettibili all’impatto. Non devono esistere premesse al ritrovarsi davanti a una staccionata di candele, che cinge un praticello di spine e buchi neri, dove occhieggiano una casa senza porte, un cuore forato, una testa di pesce. A farci da guida un Virgilio diafano che ha i femori al posto delle scapole. È ciò che deve accadere nell’immediato.

 Perché sennò abbiamo tempo di edificare, di ricostruirci il nostro sacro spazio ristretto: ci diamo tempo di dirci che una staccionata di cera avrebbe un costo enorme, che annaffiare le spine è attività malsana, che i buchi neri vanno riempiti e le finestre non sono tagli e un cuore forato sarebbe un organo morto e una testa di pesce magari no e in ogni caso i femori fanno comodo lì dove stanno!

 Nel frattempo le vertebre del senso comune cric crac continuano a schiacciarsi le une contro le altre, le cartilagini mandano lettere da terre straniere. E nei nostri trasportini, con l’arcano terrore del veterinario, riprendiamo a latrare come animaletti messi alle strette: “Troppe immagini in giro!”, “Troppe parole nelle orecchie!”, “Troppi stimoli al mondo!”, “Chi lo accetta lo fa per tornaconto!”.

 Pare inevitabile che le chiare e le ginevre del caso, uscendo frastornate dal dormiveglia dei propri tempi creativi, non possano che sentirsi in colpa. Del resto in questo mondo di trasportini e latrati con quale diritto ci si concedono spazi bianchi?

 La risposta non può essere data dalle dirette interessate, ma può essere data senza difficoltà da un qualsiasi fruitore: ha diritto alla creazione di spazi vergini chiunque poi metta questi spazi a disposizione degli altri. E già si divide la rassegna di latrante umanità in due. L’intimismo egotico di chi tutto esige come dovuto risarcimento resti pure nel trasportino, la categoria sbagliata zuppa di poesia si dia da fare.

 «Ma se le stesse autrici ammettono di sentirsi in colpa» grida il Giudice Parrucco, battendo il martelletto di gomma: «con che diritto intervieni proprio tu che non c’entri niente?!»

 Beh in primo luogo io c’entro agevolmente – anche disteso – perché mi è stato donato lo spazio vergine, quello in cui disincastrare le vertebre del senso comune. In secondo luogo non ho visto autrici da nessuna parte, solo falene irradiate di luce nella penombra delle proprie ali e gerbilli tuttocchi a cui mezzosorridere di ritorno dai funerali. In terzo luogo, Vostro Onore, ricordo ch’essere passanti per le colonie penali e per gli arcobaleni tristi non è reato. Soprattutto nel mondo di Franz, dove il senso di colpa è l’unica Legge. Questo quello che direi se fossi risoluto, cosa che ovviamente non sono. Cosa che ovviamente non siamo.

 Eppure questa gita fuori dal trasportino valeva bene la pena, diciamoci la verità. Non foss’altro che per ricordare che sindromedellabbandono non è una parola unica, e quindi bisogna farsi in quattro per dire a doppia voce taci sindrome! taci abbandono! Non foss’altro che per ricordare che le correzioni sanguigne che ci portiamo dietro dalle scuole elementari magari servivano solo a smorzare una seconda parte della vita, scritta solo a bile nera.

 E quindi… volete a tutti i costi pensare che se si recensisce bene un’opera è perché lo si vede come un tassello obbligatorio per conquistare la Polonia? Pensatelo pure, non mi cambia granché. Io levo le tende da questa colonia penale prima di subito: monto a cavallo del mio secchiello senza carbone e volo via, allontanato dall’agitarsi di uno strofinaccio. Mi basta sapere che esistono ancora parole non illustrabili e immagini non didascalizzabili. Questo è il mio preziosissimo carbone. Quando i calendari sulla schiena cominciano a spezzare ossa come bastoncini e ci si dimentica della forma delle foglie, potrebbe non essere vergogna rivolgersi a un professionista. E un semplice libriccino – a differenza del Giudice Parrucco – può essere un ottimo professionista.

***

 «Caro, hai sentito?»        

 «Torna a dormire, non è niente.»

 «Niente? Ma se mi ha svegliata!»

 «Saranno gli animali nel trasportino.»

 «Mh… Sembrava più il rumore di un graffio che dice fiorite dove siete piantati, stronzi!»

Claudio Fulvio Bernardi per Dea Culpa, UrsaMaior Edizioni; 2023

Viola Amarelli: L’indifferenziata e il Gran Rifiuto

«ATTENZIONE! Questa non è una recensione! Ripeto: questa NON è una recensione!»

Mantenete la posizione e prestate orecchio [clinico e cinico] al Coro che Opera: L’Indifferenziata rifiuta e riforma, riformula il fiato e rifila la rumenta che ci accorpa e ci accoppa. Ricordate il detto? «Si legge bene sol quel è scritto meglio»; ecco: un Libro che si legge cantando [e sùbito mi scuso per l’uso delle Maiuscole che Viola Amarelli evita per un preciso potente pareggiare, non solo i conti – ma soprattutto i margini, in questa vita *a bandiera*].

   Cantando, si principiava; cantando sì – perché Viola Amarelli è Librettista e Direttrice della Matematica che Orchestra il verso/vertice di una Parabola: liturgia e letania del puntozero, vangelo del Metro-politano; Metro-poliziano.

In principio fu il Titolo e il sorriso infantile di chi dileggia perfino Eugenio e Alberto: Montale e Moravia [tra Indifferenti e indifferenza] certo riecheggiano nel timpano logoro del letterato, ma la memoria ghiottona d’una bimba belina – *presentì* i Gem Boy e il loro album Internettezza urbana; preconizzando codice binario che regola il Volume [lei prende i pensieri, li spezzetta, li raggela/e poi li e-dita; computer quantistici; il robot, pokemon, segnale, non c’è recettore/stiamo crittografando per voi; …]    


*

il mondo, un codice binario

*

Algoritmi dell’animaccia meccanica quotidiana, archeoanfibologia in mistica melodica metafora, lontana dai poeti *struzzi*, Amarelli rima con Rosselli – per la Serie Ospedaliera: arterie bloccate [*ci scusiamo per il disagio*] in un mondo all’ingrosso che gronda grasso in un pianeta ammalato destinato al collasso; globo affamato tra tende di tettoie [che fine ha fatto il cibo].

Viola Cantore sull’orlo di un precipizio ci invita adesso a giocare [Bist Du Bei Mir] tra traumi e tautogrammi: polifonica parata di piranha pialla – fratture reali; pericarpi e peristalsi; bulimia e catalisi di un’anabasi che spolmona anche quando muta [l’atroce, la chiamano vita/quest’afona voce].

Lo Sparito incalza, infilza in cranio il vessillo del carname provato; carcame mammifero che s’accorda ancorché scordato, immemore del tempo: i verbi all’infinito sono dispotica certezza per la razza/non schiatta, schiattiglia – diluita come orrida birra annacquata. Ritma, tuttavia, poderosa la speranza guerriera – tra consapevolezza e rassegnazione – in forte spirito animale, quando tutto ci sbrana: il mulo paziente pensa alla napoletana e pianissimo passa/pianissimo lascia. La scia è fine di lucertola [la coda ricresce, il neurone si strozza]; in un bestiario triste [no, nessuna fenice], ma consolatorio: nella mostra *canina* ch’azzanna ch’azzarda ch’azzera – restano la balena, il drago, il sauro, il daino [zompetto e paupulo] contro ogni tradimento giacché forse l’unico Mulino che possiamo ancora combattere è quello Bianco.


Signora dei serpenti, Matre matrice – L’Indifferenziata è Multiverso gravido: discolpando il Capro, ripartendo da Capo, scrollando la polvere di quest’acaro nudo che chiamiamo Uomo.  

«l’elenco anodino della spesa con riportate tutte le indicazioni

ed etichettature, rimodulate in forma clamans sottotensiva e

asindetica, in tono abstract for call papers, si sottopone a

peer review, della serie infinita leggetevelo voi e gli intimi

nemici»

L’indifferenziata di Viola Amarelli; Seri Editore; Le piume; 2020

Mitili, militi, limiti [o: 56 sfumature di Corsi]

«Vivo lungo il film dell’erosione»
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E potrei e dovrei spiegarVi perché – Roberto Rossi Corsi – sia puro poeta perverso grazie a questo diabolico esempio; ma non lo farò! Perché? Il recensore è mediatore? Lo stesso autore si lamentò: «mi annoio io leggendo le recensioni degli altri, figuriamoci il lettore». Taglia corto! Riassumi! Mira al cuore Ramon! Veloce e violento. Fast and Furious? Amami Alfredo: dimmi cosa esiga puntozero – e tenterò travestirmi da fottuto Figaro. Barba e capelli; cozze e bargigli. Dal pianeta alopecia proietta per impetrare l’impempare da imparare.

 

  • Un tram che si chiama Austostima

«ora hai solo da piangerti addosso fino all’ultima impepata». Sì, è Lui: The Great Pretender! L’autore dissimula, dribbla, dileggia. L’autore diverte. Etimologicamente. Chiede approvazione ostentando rassegnazione nell’immortale mortale bisogno di forza. La sua maschera salmastra recita e cataloga le paure che non prevedono terapie: «Odio la persistenza del perdente. Mi odio». Quale rimedio?
Logorati dal delirio borghese? Dai blog, dai follower? Sopporta la frattura della vertebra sociale «Ma versami da bere».

  • Mary Pop-Pins

«fiorentinmilanesparmigianreggianpratesi». Perfido Lui o Voi? Metrica? Quale metrica? Gobba? Quale gobba? Conclamato tributo: «supercalifragilistichespiralidoso». Corsi vanta polmoni a libro e sfida fiato del fortunato uditore per testarne abilità oratorie

  • Il Nome della Tosa

«ed è già in vista, incontrastata da slanci, la nemesi della battigia»: battaglia della carne, l’autore conta le cicatrici. I «battesimi del corpo» non santificano e cerca rendersi insensibile per poi tornare a gridare «anch’io ho amato». Sugo e respiro: campionato dell’ingoio [rospo non digerito: è un Do senza Ut. Spartito della solitudine. E «i corpi avuti/sbattono su mutamenti o anoressie». Fame. Note le bestie del «chiagne e fotte, ingoia e monetizza l’emiliana…»]. Il sesso è un organo, come lo stomaco

  • Non ci resta che scrivere

«(nessuno sa fare il nessuno quanto me)»: Roberto provoca perché Corsi protesta, nudo di gilda; s’allontana dalla pratica di Pulcinella: «Cari tutti/ io mi sono fermato, ho ruminato a lungo i versi imparando/a vararli da solo, danzando smorzando il silenzio degli altéri. E ho visto negli occhi/di chi non ha saputo dir basta, scialando assegni a quattro zeri per proclamarsi/e farsi proclamare poeta, il lampo del dubbio d’irrilevanza, come esantema/improvviso in vecchiaia: non è cosa da augurare».

Gavetta, gavotta e poi gaviota: con un colpo d’ala e da maestro imbecca chi cerca risposta dai poeti riconosciuti: Ctenoforo muove tentacolo meglio di Mamma Azienda. Pay to play? No pain – no gain. Fuggite, schiocchi! Fuggite sciocchi: sale sulle ferite «[…] ancora speravo di essere diverso./Invece libro dopo libro si mostra la mia vita non vita/di comunista con la liretta che si sciacqua la coscienza col bidet dei saggi di storia». Morale della storia? Non possiamo giustificare la nostra masturbazione informatica se l’Opera non controbilancia.

  • Io, il Valzer e l’Oscuro

Il Signor 56 cozze vanta anche 15 palle: ritmica brama è stecca. Suona, sa, simula. Corsi vola basso e schiva il sasso – con nonchalance – inocula Who su spartito medievista; ingoliarda Classica Fuga per filosofica schitarrata, senza pretendere lettore capisca – ma almeno intuisca. «Sii deciso o sei perduto»: Be Quick or Be Dead!

 

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«La mia
Zihuatanejo»
is the new
«
Chiamatemi Ismaele»

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[Roberto R. Corsi, Cinquantaseicozze; Italic; Ancona; 2015; poesia Mitileuropea]

OGGI CHE PROSO QUESTI VERSI

Pietra nera sopra una pietra bianca

Morirò a Parigi durante un acquazzone,
un giorno di cui ho già il ricordo.
Morirò a Parigi – e non mi vergogno –
forse un giovedì, come oggi, d’autunno.

Giovedì sarà, perchè oggi, giovedì, che proso
questi versi, gli omeri ho indossato
alla buona e, mai come oggi, son tornato,
con tutta la mia strada, a vedermi solo.

César Vallejo è morto, lo picchiavano
tutti senza che lui facesse loro nulla;
gliele davano sode con un bastone e sode

anche con una corda; son testimoni
i giorni giovedì e le ossa omeri,
la solitudine, la pioggia, le strade…

[C.V.]

*Non piangere: non è il tuo destino, se non pretendi [anche tu!] di scrivere.

Si è meno soli quando bastano i corpi: la carne, la crosta, la camera…

I colleghi – che uno scrittore non ha*


[C.D.]

http://totanisognanti.blogspot.it/2013/04/siamo-soli-moriro-parigi-di-chiara.html

E Dama

ringrazia – ritorna – rimanda

[*TUTTO A DOMANI*]

BALLO PER DAMA [di Vicky Rubini]

… And suddenly know the reason I’m here
I’m here for a smile on a young honest face
a smile I will borrow
a smile I will keep
for the night I’ll row

into the black darkest deep

[Enrico Gaibazzi]

 

BALLO PER DAMA
[Testo, Voce, Musiche – di Vicky Rubini.
E Shiva danza e Dama ringrazia]

Ti ho conosciuta per caso e poesia
giri di vite, compagni di via…
Ti ho conosciuta dall’altro capo del mondo,
borchie e metallo sono scudo
di un cuore profondo.

Ho letto i Tuoi libri, ho letto le Tue poesie
e quanto vorrei vi assomigliassero le mie:
sei la Resistenza dell’Arte italiana
non succhi scorciatoie, non giochi alla puttana!

Dama, la scacchiera è pronta
muovi il Tuo cavallo e lascia la Tua impronta
su di noi, Dama, Tu che puoi
brilla la Tua stella tra quella degli eroi.

E se un giorno Ti manca il coraggio
sta arrivando un paesaggio migliore,
se conti le ore, se conti quanto resta
stacca l’orologio, Dama, alza la testa!

Tempo tiranno, tempo cattivo
tempo se soffro so almeno che vivo
e se Ti accorgi di avere paura
di tutte le minchie la vita è più dura!

[Ritornello]

***
E se un giorno Ti chiedi perché…

Chi Ti vuol bene è sempre con Te

LO SCANDALO DELLA LINGUA: Luigi Metropoli intervista Chiara Daino

 

L.M. Nella tua scrittura poetica adotti spesso le forme chiuse, metriche ferree e prosodie rigorose. Eppure all’interno dello stesso libro, la varietas di queste forme è sorprendente, come sorprendente è la malleabilità che queste assumono sotto il tuo lavoro di cesello. Al contempo la veste lessicale è completamente ritessuta: parole inventate e altre decapitate, arcaismi che ritornano, preziosismi ed escursioni in registri allotri a quello poetico; in questo smottamento lessicale e ricostruzione linguistica è l’ambito semantico a essere straniato: rimandi continui tra sensi allusi e dichiarati, e soprattutto unità di significato che sembrano attendere l’oralità (o meglio: la vocalità) per assumere ulteriori sfumature, significazioni. Infine la criptocitazione e la riscrittura. Una lingua (e una poesia) che cresce su se stessa. Ci puoi raccontare (non spiegare, ma raccontare) la genesi dei tuoi versi? Restando su un repertorio poetico, quanto incidono i testi altrui (più che letture, direi assimilazioni) nell’elaborazione dei tuoi?

C.D. Come nascono le mie poesie? Sarebbe più facile trovare la fattorizzazione di due numeri primi con più di dieci cifre l’uno – che rispondere, rendendo comprensibile ad altri quel Δαίμων (dáimōn) tutt’ora incomprensibile a me [nonostante mi alberghi in cranio e occupi la mia carcassa]. Spiegare come nascono le mie poesie è come provare a dire che lo spazio può suddividersi in infiniti sottospazi e questi a loro volta, ricorsivamente, in altrettanti frazioni di spazio, quando l’aria che ti separa da un ceffone in arrivo sta diminuendo sempre più: se lo spazio è infinito, un ceffone non arriverà mai a destinazione perché dovrebbe oltrepassare infiniti spazi. E provate a spiegarlo alle gote tumefatte dei miei ex…

Semplificando: come nascono le mie poesie è un processo di gestazione che non conosco e non voglio conoscere [e quanto è palese che mi scelga amici matematici per concertare assurdi paralleli poetici?].

Alle risposte sbavate da Cane di Pavlov preferisco i paradossi alla Gatto di Schrödinger – se solo il pubblico non mi ragliasse invettive confermando l’onnipotenza e l’onnivalenza dell’Asino di Buridano – ma non sarebbe, chiaramente, corretto cavarmela «alla Pratchett»…

Daino, quindi, dirà dei versi e delle liriche – più che delle poesie [termine ormai logoro e abusato, come logoro e abusato è scrivere logoro e abusato]: l’animale geneticamente predisposto reagisce a uno stimolo che l’anima filtra e l’artista perfeziona.

Il pretesto poetico è sempre un pre-testo che si scatena quando la mia cinesfera è biglia di cristallo che si scontra con i globi di granito dell’accadere antropico, tintinnando un motivo: matrëška di sensi che devono, sempre e comunque, concertare suoni. Siano echi di antichi aedi o accordi minori; siano rimbombi metallici o ritornelli scapigliati; siano ripercussioni dell’orecchio onnivoro che conclude il timpano interno – è il ritmo il reale rapace che mi radica. E recupera e rimesta: cultura classica e volontà ferrea, indole bambina e struttura chiodata, sorriso di Sfinge e ghigno da Stregatto, grazia e violenza, ricordi di strada e pupilla lucida. Una leccata e un’unghiata, nella pescina veste ossimorica.

È la continua azione gastrica che infiamma, ingoia e vomita senza possibilità altra: la facilità di parola non si conquista e non si acquista, è innata. L’unica scelta possibile è accipere o remittere, l’Aut-Aut amletico: «To be or not to be, si è o non si è». E se si è – si deve essere: una traduzione assidua, anche quando libera o sbagliata, si deve giurare amore e fedeltà alla parola che ci incarna e ci rappresenta, di maschera in maschera per la varietà ventriloqua che rende unica e nuda ogni manifestazione umana ed artistica.

Per questo sono allergica alla Livella dei mortinvita che ottimizzano ogni metro quadro come un’opera di Romero, per questo non sopporto il continuo gloglottare la stessa identica banale motivazione: «scrivo perché ho qualcosa da dire». Sì, anch’io: ma vaiaffarinculo te, il tuo ho qualcosa da dire, il tuo definirti artigiano e non artista perché artigiano suona equochic, la tua modestia simulata quando ripeti che devono dirtelo gli altri se tu sia bravo o meno, il tuo scrivere poesie per esprimere un’emozione, il tuo straminchia di pistillo malconcio che ti ha illuminato sulla via del Basko facendoti scoprire Bashō per assonanza mistica preconizzata nel consesso del brodo primordiale da un pantheon iperuranico sconosciuto ai più, …

Scrivo perché questo è il mio ruolo, come lo è stato Nina a Teatro o il growl intestino spolmonato di palco in palco. Scrivo perché recito, recito quando non scrivo, canto quando rugghio un diverso attributo per lo spettacolo che sono e che ho scelto: non aggirare l’ostacolo, ma esserlo!

Tre, due, uno: mi accendo una sigaretta e aspetto il rimprovero tritato con spolverata di prezzemolo… Mi offra un Cuba Libre [chiaro e pestato] chi ha capito! E non osate bicellarmi sul musoil detto latino NOMEN OMEN ché Chiara non è mai chiara proprio per onomastica del tria nomina: Chiara è praenomen e nomen è Daino, omen di Dama.

Non è una risposta da poeta, mio Geniale Lettore, ma prego portare pazienza: il mago che svela i suoi trucchi non ama la magia.

[Tra parentesi: da anni, ormai, si incontrano di nascosto, a las cinco de la mañana, contrappunto orario per  tributare Garcìa Lorca, in qualche Bar di Caracas o nelle fosse di Moers, ma non sarò certo io a privare gli esegeti del loro mestiere!]

Sempre restando sulla riscrittura e sul gioco delle fonti, tu hai avuto l’”ardire” di riscrivere Dante, il totem della nostra letteratura, con un testo che si chiama Metalli Commedia. L’esperimento è tanto più scandaloso, se si pensa al palese intento ironico e all’adattamento dello spirito dantesco a quello del metal. Hai inventato/ripreso un ipotetico italiano trecentesco, infarcendolo di riferimenti al mondo della musica metal e al tuo personale. Si tratta semplicemente di una provocazione, di un’operazione che intende “promuovere”, come dici tu, la valenza culturale e poetica del metal o è piuttosto una necessità di confrontarsi ancora con la lingua, al punto di scomodare Dante?

«Si è obbligati allo scandalo, quasi fosse la “prima comunione” con l’indifferente prossimo tuo»: e come Carmelo mi è Stella di Betlemme, così cavalco una cometa in puro stile Manowar. E mettiamo i puntini sulla o di Motörhead – affinché l’umlaut sia impronta definita e definitiva: Metalli Commedia NON è una parodia! Coraggio, Geniale Lettore, ripetilo a voce alta per 4755 volte: «Metalli Commedia NON è una parodia!». Pur essendo entrambi di Genova, «Nel mezzo di casin di nostra vita» [Mondadori, 2011] di Maurizio Lastrico è opera/operazione COMPLETAMENTE DIVERSA da «Metalli Commedia» [Thauma, 2010 – e Case Editrici e  anni di pubblicazione sono volutamente indicati].

Metalli Commedia, come Luigi Metropoli [santo subito!] sottolinea, è una riscrittura. E NON è una riscrittura parodica, nel caso qualcun altro [sì, ho le membrane timpaniche rotte e le retine lese per tante assurdità ascoltate e lette] si sentisse obbligato a confinarmi in un genere che non mi appartiene. Ho amato l’Inferno di Topolino come i Promessi Topi e i Promessi Paperi – ma parodia e riscrittura restino distinte!

Confrontarsi e recuperare la lingua dantesca, le terzine incatenate di endecasillabi, la struttura poematica della Comedìa – amalgamando Cultura e tradizione Metal, feroce critica artistica e sociale, richiami al mondo del Teatro della Pittura e della Poesia, citazioni e tributi, mistilinguismo e generi letterari, traduzioni e prosodia, storia e Stratocaster: è stato davvero un viaggio all’Inferno e dall’Inferno, attraverso i mondi. Highway to Hell che, Blake docet [e Virgin Steele ben lo sanno], sposa Stairway to Heaven.

Nei tuoi scritti c’è sempre un io ipertrofico, sia nella poesia che nella prosa. Non di rado c’è un lato biografico dominante, con riferimenti nemmeno tanto traslati. È più la tua vita ad entrare nella scrittura o è la scrittura ad aver colonizzato la tua vita?

Partiamo dal lato biografico: non bisogna confondere la biografia con la «frittura diaria». La biografia di ogni autore [e di ogni artista] è imprescindibile, così come la sua fisiologia, la sua storia clinica, il tessuto sociale, il contesto famigliare e geografico, et cetera… L’ossessione biografica mi aiutò anche all’esame di maturità quando il commissario esterno mi chiese la differenza fondamentale tra Schopenhauer e Kierkegaard, forse convinto di una risposta basata sulle Opere a confronto. Giacché l’Italiano non è un opinione e «la verità riposa sul testo», scandii sicura: «la coerenza». Iniziai a discettare di Søren e del suo rapporto con Regina, delle accuse d’ipocrisia che rivolse ad Arthur, dell’identità Vita-Opera. Esposizione fieramente verbosa che terrorizzò i miei compagni maturandi giacché il nostro docente di filosofia, per tutto il lustro di Tartaro Classico, ci fece sbarrare il paragrafo biografico poiché trascurabile…

Aneddotica per precisare la differenza tra biografia e diaristica adolescenziale. E non solo: detesto anche il riproporsi dello sciatto interrogarmi «di CHE COSA parla il tuo ultimo libro?» – trattandosi di quesito mal posto. «Di CHI parla il mio ultimo libro» è l’interrogativo pertinente, discettando di UMANE LETTERE e l’Umanità è una cascata di collisioni biografiche.

Ficcando le granfie nello specifico della mia scrittura: mai avuto la vocazione da eremita [forse da trappista, ma non da eremita] e troverei ipocrita strutturare una rima di frattura senza che il mio scheletro ne avesse memoria. Rem tene, verba sequentur, giusto? Devo possedere l’argomento prima di metterlo a segno parola e attraverso quale processo? Non era forse l’umbilicus ad incollare i fogli di papiro? Ho macinato più chilometri intorno al mio ombelico di quanti ne assommano insieme Marco Polo, James Cook e Naomi Campbell. Pure: pubblicai solo DOPO essermi confrontata con ombelichi estranei…

Un critico [che poi è Jacopo Riccardi, l’esegeta mio unico] mi riassunse come «pontefice in senso etimologico»: e come potrei vivere da ponte, come potrei scrivere da ponte – senza scortecciarmi la carne? Non ho paura delle ferite perché ho troppa fame e m’attuffo decisa, identità multipla, cosciente di quanta Bellezza e quanto Orrore regalino i traffici sociali. Mai erigerei alibi per non tendere l’arco: βίος e Bias. Di conferma e di verifica per il mio investimento umano.

Controcanto e contrappasso: la scrittura colonizza e condiziona ogni mio respiro e, recentemente, anche ogni mio rapporto, reso un rapporto anaforico grazie al reiterarsi di una monotona convenzione linguistica

– E tu cosa fai nella vita?

– Non faccio un beneamato. Sono

– E cosa sei?

– Non una cosa

– Cazzo se sei acida

– E fastidiosa, me ne rendo conto…

– E chi sei?

– Sono uno scrittore

– Sei un maschio?

– No, un uomo di genere femminile, ma ti risparmio il casino creato dal protofrancese e le ripercussioni storiche date dall’eguaglianza HOMO = VIR

– Però, parli davvero difficile. E cosa scrivi?

– Libri?

– Intendevo, libri di cosa? Di cosa parlano?

– Non di cose, ma di chi e di come

– Cheppalle! Non capisco quando parli, ma di lavoro cosa fai?

– Questo

– Dico sul serio…

– Anch’io

–  Non sei famosa come Faletti o Saviano, Camilleri o Carofiglio, come ti mantieni?

–  Come tutti. Sopporto, combatto, resisto. E Mangio poco

– Ma da quel che vedo bevi tanto e fumi troppo. Cos’è? Mancanza di autostima? Autodistruttiva da manuale o ti piace fare la figa incompresa? Vuoi farti la reputazione di artista maledetta?

–  No, Benedetta. Mi nutro di Carmelo

– Cioè? Questa non l’ho capita

– Sopravviverò anche a questo dolore

– Sai che anche io scrivo?

– Mi sarei stupita del contrario…

– Ti trovo in rete? Magari ti mando qualcosa di mio…

– Fammi indovinare: poesie, racconti brevi e un abbozzo di romanzo che da anni non riesci a concludere…

– Come lo sai?

– Ti ho mentito. Sono una strega

[…]
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ESEGESI AUDACE: JACOPO RICCARDI PER LA PIETRA CHIARA

INTRUSIONI SPARSE ED INSOLUTE

di JACOPO RICCARDI 

Περί “[ARCHI DI] PIETRA” di Chiara Daino

(rectius, Περί Chiara Daino, [ARCHI DI] PIETRA, 2009[1])

INTITOLAZIONE: Archi di Pietra = Petrarca = Archa, lt. (dove anche l’hache muet corrobora + Petra [2] = L’Arca di Pietra (radice funerea ed ossequiosa) in cui è sepolto il Poeta ad Arquà, mentre Arquà ≠ Arca (paronomasia ma non paretimologia) – Parentesi quadre anche a disegnare archi petrosi (e sovvertiti)

Genere: Centone trionfale

Sottogenere: Trionfo prevalentemente d’Amore, nonostante tutto (scatola cinese) [Amore pur sempre fonte zampillante]

*** METALLI ***

… A paro a paro coi nobili … stil bruto… (I strofa) : principio di non contraddizione

“…stil bruto” + (≠) stil nuovo = “bruto nuovo” (Lorenzaccio, omaggio a Carmelo Bene)

stil bruto…” (I) = “ostile – e sempre un stil…” (ib.) = steel (dove

steel: iron = acciaio : ferro[3]

e “un” è unus (cfr. VII) (“stil… raro” in I ≡ “dir strano e singolare” in IX)

*** FIERA ***

“Una giovene fiera…” (I) + “…leggiadra fera….” (III) + “Donna, fiera…” : in una, tre fiere dantesche (“leggiadra” allude a “lonza leggera” di If. 1,33) (con la consonanza di ferro di cui sopra) (e, baroccheggiando, la “fera dispietata” è di G.B. Marino, Rime) (anche in XI).

*** SINOSSI ***

Richiami (anche benianamente introdotti) del Triumphus Cupidinis (dove il segno ≠ indica il dispetrarchismo HM della Dama):

–          “Una giovene fiera a paro a paro coi nobili poeti va cantando” (I) ≈  “Una giovene greca a paro a paro / coi nobili poeti iva cantando” (4,25-26) (ma con nostalgia dell’ellenicità)

–          “et ha un suo stil bruto e raro” (I) ≠ “et avea un suo stil soave e raro” (4,27)

–          “nudrita di penser non dolce” (I) ≠ “nudrito di penser dolci soavi” (1,83)

–          “Ven colei ch’ ha ‘l titol d’esser” (I) (in anafora e quasi perfetta concinnitas – seguono “belva” e “folle”, sinonimi dionisiaci nietzschiani) = 1,135 (ma seguiva “bella” – terzo sinonimo secondo la Dama; inoltre “belva” e “bella” sono consonanti)

–          “tal che nessun sapea ‘n qual mondo fosse” (I) = 4,99

–          “colei che ‘l mondo chiama ostile” (I) ≠ “colui che ‘l mondo chiama Amore” (1,76)

–          “amante terribile e maligna” (II) = 1,114 (con sovrapposizione con Fedra[4])

–          “disdegnosa e dolente si richiama” (II) = 3,48

–          “et anco è di malor: sì nuda e magra” (II) ≠ 4,109 con “valor” sostituito da “malor” (pubblicità occulta alle birre Malheur, come evidenzia poi in III “alta colonna di malor” che è un boccale da litro, pur con ripresa di una pericope del Canzoniere)

–          “tanto ritien del suo esser BILE” (II) (maiuscolo da blogger) ≠”tanto ritien del suo esser vile” (4,110) (Ippocrate e la teoria umorale – natura coleretica – Dama biliosa, melancholica, saturnina)

–          “che par dolce ma punge agra” (II) ≈ “che par dolce a’ cattivi et a’ buoni agra” (4,111) (con de-moralizzazione)

–          “Com’arde in prima, e poi si rode, d’amor, di gelosia, d’invidia ardendo” (II) = 3,70 + 3,105 (in paronomasia con “ardir” e col sottinteso “arsura” come sete-da-birra)

–          “in grembo a la nemica il capo pone” (II) = 3,51

–          “Stanco già di mirar, non sazio ancora” (III) = 2,1

–          “Gli occhi dal suo bel viso non torcea” (III) = 3,106

–          “gli occhi, già accesi d’un celeste lume” (III) ≈ “gli occhi, ch’accesi d’un celeste lume” (3,137) (la Dama iam è glaucopide)

–          “Femina vinse chi pareami tanto robusto” (III) ≈ “Femina ‘l vinse, e par tanto robusto”  (1,99)

–          “Del qual più d’altro mai l’alma […] ebbe piena” (III) = 2,36

–          “fu principio a sì lunghi martìri” (IV) = 1,3 dove però il SÌ è forsitan orgasmico (cfr. infra)

–          “non curando speme né pene” (IV) ≈ “non curando di me né di mie pene” (3,122) (nessuna ansia di scopare)

–          “costei non è chi tanto o quanto stringa” (IV) = 3,130

–          “crudelmente scorza e rebellante suole da le ‘nsegne d’Amore andar solinga” (IV) ≈ “così selvaggia e rebellante suole etc.” (3,131-132) dove “scorza” è linguaggio metallico

–          “Non bollì mai Vulcan, Lipari od Ischia, Strongoli o Mongibello in tanta rabbia” (IV) = 4,154-155

–          “ragion contra lei non ha loco” (IV) ≈ “ragion contra forza non ha loco” (2,111) (lei/vis)

–          “poco ama sé chi ‘n tal gioco s’arrischia” (IV) = 4,156

–          “so com’ode saetta e come vola” (V) ≠ “so com’Amor saetta e come vola” (3,177)

–          “com’or rubea per forza e come invola” (V) ≠ “come ruba per forza e come invola” (3,179) (con allusione ai Rosa Rubea)

–          “come nell’ossa il suo fuoco di pesce” (VI) ≠ derivato da “si pasce” (3,181) con riferimento zodiacale (ambo, ambliopia, ambivalenza, ambiguità, amfesibena)

–          “e ne le vene vive occulta piega, onde morte e palese incendio nasce” (VI) ≠ 3,182-3 dove “piaga” diventa “piega” (alcoolica; ma anche plica, ci si piega e ci spiega e ci si ripiega)

–          “e so come in un punto si dilegua” (VII) = 3,154

–          “fra lunghi sospiri e brevi risa” (VII) = 3,163

–          “voglia color cangiare spesso” (VII) ≠ 3,164 con interpunzione differente, dove “voglia” di Petrarca è sostantivo mentre qui è verbo (tinta dei capelli)

–          “stando dal cor l’alma divisa” (VII) = 3,165 (con ripresa in IX)

–          “seguendo il […] foco ovunque fugge” (VII) = 3,167

–          “arder da lunge e agghiacciar da presso” (VII) = 3,168

–          “So come ogni ragione d’Amor discaccia e so in quante maniere il cor distrugge” (VII) ≠ “So come ogni ragione indi discaccia e so in quante maniere il cor si strugge” (3,170-171): la Dama cuce un Trionfo d’Amore per debellarlo (“alma ondivaga” in VII, schizofrenia)

–          “rotto parlar con subito silenzio” (VII) = 3,185

–          “poco dolce molto amaro appaga, mal temprata con l’assenzio” (VII) = 3,186 + 3,187 (pare metafora del caffè corretto)

–          “sangue meschio” (VII) = 3,58

–          “Un singular suo proprio portamento, suo riso, suoi disdegni e sue parole” (VIII) = 3,134-135

–          “E poi un drappello di portamenti e di volgari strani” (VIII) = 4,38-39

–          “Ch’ogni maschio pensier de l’alma tolle” (VIII) = 4,105

–          “che di non esser prima par ch’ira aggia” (IX) ≈ 4,33

–          “poco era fuor de la comune strada” (IX) = 4,67

–          “se, come dee, virtù nuda si stima” (IX) = 4,72 (nudezza, rivelazione, apocalissi)

–          “ch’Algòs sì leve afferra” (IX) ≠ “ch’Amor sì leve afferra” (algoV, algos del nostos) (“et a Genova tolta”, complimento di derivazione e separazione)

–          “et a Genova tolta, et a l’estremo cangiò per miglior patria, abito e stato” (IX) = 4,50-51

–          “Ma pur di lei, che ‘l cor di penser m’empie, non potei coglier coglier mai ramo né foglia, sì fur le sue radici audaci e purpuree le penne” (X) ≠ 4,82-84 dove “audaci e purpuree le penne” (da 4,94) sostituisce l’originale “acerbe ed empie”;

–          “benché talor doler mi soglia [com’uom ch’è offeso] ecco quel che con questi occhi vidi” (X) ≈ 4,85-87

–          “penitenza e dolor dopo la pelle” (X) ≠ “penitenza e dolor dopo le spalle” (4,119)

–          “Tardi ingegni rintuzzati e sciocchi” (XI) = 4,90

–          “greggia eran condutti” (XI) = 4,9

–          “pien d’ira e di disdegno” (XII) = 1,98

–          “che ‘l ferro e ‘l foco affina” (XVIII) = 3,31 (ferro, fuoco, forgia, fornace, fucina…)

–          “la penna da man destra e’l ferro ignudo ten dalla sinestra” (XVIII) = 2,181 + 183

–          “Invece d’osse la vidi indurarse in petra aspra, che del mar infamia fosse” (XVIII) rielabora 2,178-180 (infamia è greco-sicano)

Dal Triumphus Mortis, invece:

–          “e sempre un stil, ovunque fusse tenne” (I) = 2,59

–          “ignudo spirto” (III) = 1,2 (dove la nudità dello spirito è rivelata dalla nudezza del corpo della strofa II, che la anticipa e la compie)

–          – “Colei che con sua tela tutto il mondo atterra, tornava con onor da la sua guerra, allegra avendo vinto il gran nemico” (III) è lo scrambling della seconda terzina. Dove tela è latino, e sono al tempo stesso le frecce di Apollo poeta, oblique e pericolose (Giorgio Colli feat.[5], cfr. V: “Ma benché obliqua”) e le armi di Diana / Daina  (in anagramma)

–          “come Fortuna va cangiando stile” (V) = 1,135 (fortuna/fortunale)

–          “Donna involta in veste magra, con un furor qual io non so se mai” (VII) ≈ 1,31-32 (sostituisce “negra” con “magra”) (“lingua magra” de «La merca»)

–          “Pallida no, ma più che neve bianca che senza vento in un bel colle fiocchi, parea posar come persona stanca. Quasi un dolce dormir ne’ suo’ belli occhi, sendo lo corpo già da lei diviso, era quel che consumar chiaman gli sciocchi” (IX) ≈ 1,166-171 con “consumar” che sostituisce “morir” (più spleen, più erotico, più etico √ tisi)

–          “a guisa d’un soave e chiaro lume cui nutrimento a poco a poco manca, tenendo al fine il suo caro costume” (IX) = 1,163-165

–          “io sono colei che SI’ importuna, fera chiamata son da voi, sorda e cieca gente a cui si fa notte innanzi sera” (XI) ≠ 1,37-39 con interpunzione che traduce “fera” da attributo ad appellativo

–          “Di gioventute e di bellezza altera” (XI ) = 1,35

–          “con la mia spada la qual punge e seca” (XI) = 1,42 (stile, stilo, stiletto)

–          “ giugnendo quand’altri non m’aspetta, ho interrotti mille penser vani” (XI) = 1,44-45

–          “Or a voi, quando il viver più diletta, drizzo il mio corso inanzi che Fortuna nel vostro amaro qualche dolce metta (XI) ≠ 1,46-48 con inversione di dolce/amaro (Saffo)

–          “Ben vi riconosco: so quando il mio dente vi morse” (XI) = 1,59-60

–          “Qui conven più duro morso” (XI) = 2,117 (con double sense)

–          “arco e saette” (XIII) = 1,11

–          “tal morti da lei, tal presi e vivi” (XIII) = 1,12

–          “per fictïon il ver non cresce, né scema” (XIII) ≈ 2,147 (dove “fizion” va, nella forma latinistica, a coincidere con l’arte teatrale)

–          “Poi, col ciglio più torbido e più fosco” (XIII) capovolge 1,61

–          “’L tempo è breve, vostra voglia è lunga” (XIII) = 2,25 (porno)

–          “Ond’io fora più chiara e di più grido” (XIII) ≠ “Ond’io fora men chiara e di men grido” (2,171)

–          “Così parlava, e gli occhi avea al ciel fissi devotamente; poi mosse in silenzio quelle labbra ch’io vidi rosse lampeggiar (XIV)” ≠ 2,40-42 (“rosate” del Petrarca è troppo tenue per un rossetto della Dama)

–          “Dolci sdegni e dolci ire, le dolci paci ne’ belli occhi” (XIV) = 2,82-83

Dal Triumphus Aeternitatis:

–          “Felice sasso che ‘l bel viso serra” (III) = v. 142 (viso d’effigie sepolcrale)

–          “a disfar tutto così presto” (IV) = v. 125

–          “co la mia lingua e co la forte penna” (VII) ≠ “co la mia lingua e co la stanca penna” (v. 137)
”Dinanzi a tutto ‘l mondo aperta e nuda” (XIV) = v. 111

–          “Mente vaga, al fin sempre digiuna” (XIV) = v. 61

Dal Triumphus Pudicitiae:

–          “Non fan sì grande e sì terribil sono Etna qualora da Encelado è più scossa” (IV) = vv. 25-26

–          “Non freme così ‘l mare quando s’adira” (IV) = v. 112

–          “Schiera che del suo nome empie ogni libro” (V) = v. 153

–          “la mia nemica Amor non strinse” (XV) = v. 15

–          “i cori e gli occhi fatti di smalto” (XI) = v. 33

–          “la bella vincitrice” (XI) = v. 185

–          “legarli vidi, e farne quello strazio che bastò ben a mille altre vendette” (XI) = vv. 124-125

–          “che già mai schermidor non fu sì accorto a schifar colpo, né nocchier sì presto a volger nave dagli scogli in porto, come uno schermo intrepido et onesto subito riconverte quel bel viso” (XII) = vv. 49-53

–          “E ‘n un momento – ammorba” (XII) = v. 106

–          “scudo in man” (XIII) = v. 119

Dal Triumphus Temporis:

–          “chiamasi Fame – et è morir secondo” (IV) = “chiamasi Fama et è morir secondo” = v. 143

–          “Piaga antiveduta assai men dole. Forse che ‘ndarno mie parole spargo” (XIII) = vv. 72-73

–          “Non fate contra ‘l vero al core un callo, come sete usi! Anzi volgete gli occhi, mentre il vostro fallo” (XIII) ≈ vv. 79-81 + “che sempre al vento si trastulla e di false opinïon si pasce” (vv. 133-134): la clausola “tremando scote” trasforma l’immagine in un quadro onanistico.

–          “Io v’annunzio che voi siete offesi da un grave e mortifero letargo, ché volan l’ore, e’ giorni, e gli anni, e’ mesi; insieme, con brevissimo intervallo, tutti avemo a cercar altri paesi” (XIII) = vv. 74-77

–          “I’ vidi il ghiaccio, e lì stesso la rosa, quasi in un punto il gran freddo e ‘l gran caldo”(XIV) = vv. 49-50

–          “dinanzi agli occhi un chiaro specchio” (XIV) = v. 55

–          “Falcon d’alto a sua preda volando” (XVI) = v. 33

–          “più dico [non difalca] pensier poria già mai seguir suo volo, non lingua o stile, tal che con gran paura la mirai (XVI) = vv. 34-36 con calembour

–          “s’abbia che per se stessi son levati a volo, uscendo for della comune gabbia” (XVI) rielabora vv. 91-92

–          “e riprende un più spedito volo” (XVI) = v. 96

–          “la reina di ch’io sopra dissi” (XVI) = v. 98

–          “Passan nostre grandezze e nostre pompe, passan le signorie, passano i regni” (XVII) = vv. 112-113

–          “né MAI si sposa” (XVII) ≠ “né mai si posa” (v. 119)

–          “né s’arresta o torna, finchè v’ha ricondotti in poca polve [perché umana gloria ha tante corna]” (XVII) = vv. 119-121 (la controGenesi per la neoGenesi)

Dal Triumphus Famae:

–          “Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo” (XII) = 1,43 (perché nell’occhio cilestro riluce l’aspetto di fuoco del granato)

–          “Bella era, e nell’età fiorita e fresca; quanto più in gioventute e ‘n più bellezza, tanto par che sua forza accresca; nel cor femmineo fu sì gran fermezza, che col bel viso e co l’armata coma fece temer chi per natura sprezza” (XII) = 2,109-114

–          “Pallida in vista, orribile e superba, che ‘l lume di beltà vermiglio avea” (XIV) ≠ “spento avea” di v. 5 (occhio rosso / rossetto / lente a contatto?)

–          “e NON chiaro si vede ch’è chiuso cor profondo in suo secreto” (XIV) = 1,117 con maiuscolazione della negazione della claritas nell’ottusità cordiale (con allitterazione) (e omaggio tautogrammatico al Secretum?)

–          “un duro prandio, una terribil cena” (XIV) = 2,23

–          “come fu suo piacer, volse e rivolse” (XIV) = 2,26

–          “Con dolce lingua, con fronte serena” (XV) = 2,27

–          “Uscì del foco” (XV) = 2,46

–          “E quel che, come un animal s’allaccia, co la lingua possente legò ‘l sole” (XV) = 2,64-65 (nemmeno Giosué potrebbe nulla contro la Dama)

–          “Un gran folgor parea tutto di foco” (XV) = 3,25

–          “che quando il miri più tanto più luce” (XV) = 3,39

–          “e chi che sangue qual campo s’impingue” (XV) = 3,57

–          “empié la dïalettica faretra” (XV) = 3,63

–          “ma breve e ‘scura; e’ la dichiara e stende” (XV) = 3,72 dove l’oscurità eraclitea è strumento della spiegazione di-Chiara (elitaria)

–          “E alzò ponendo l’anima immortale” (XV) = 3,107

–          “mostra la palma aperta e ‘l pugno chiuso, e per fermar sua bella intenzïone” (XV) = 3,117-118 (e saluto anarcoide)

–          “nulla forza volse ad atto vile” (XV) = 3,75 (pacifismo e congenita intentio)

–          “la lunga vita e la sua larga vena pone in accordar le parti [che ‘l furor litterato a guerra mena] (XV) = 3,100-102

 

 

*** VARIAE (da Cassiodoro) ***

“Sciolta favella” (I) conclude il trio delle corone fiorentine = Boccaccio, La Fiammetta, lib. VI

Tra II e III poliptoto di “veggio” e “vidi” (verbo della conoscenza e della storia) (e caro a chi ne ha un difetto che si trasforma in carisma)

IV: “Sia ‘l nome” è genetico e creaturale, e precede “Chiara” e la denominazione di stampo Scolastico “e chiamasi Fame” (genitivo: famae, con monottongazione della desinenza come nel titolo del Trionfo: di chiara fama) (cfr. infra) e con questo coincidenza con il testo del Triumphus Temporis, consentendo però l’inserimento di un cammeo d’omaggio all’album d’esordio di Lady Gaga (2008). Il nome anche in V “…eran chiare mosse…” (con consonanze reciproche con “la chiosa glossa”, ed invero glossa di “birre spumeggianti”) ed incipitaria in VIII (“Chiara virtute accesa, ablativo assolutom ed infatti “quasi uno scoglio”). In XIII “Ond’io fora più chiara” (con procedimento, collaudato poche linee avanti, di inversione algebrica) letterarizza l’elevazione alla potenza

“Del più dotto(r) figlia è chiara la crudel fama” (II) inserta l’omaggio alla paternità culturale di Carmelo Bene, il ludus sul proprio nomen ed un’allusione (inconscia) a Boccaccio, De claris mul. c. 49: “…aggiunse non meno di chiarezza al suo nome di crudel fama” (nel volgarizzamento  di don Tosti, Milano 1841, p. 226) (ed in “fama” sta la sostituzione elegiaca della lettera incipitaria, valendo anche “dama”) (n.b. ella “si richiama” in I : ella si ri-nomina, si ribattezza, si duplica e moltiplica nell’unicità).

In XVI rima interna rabbia / s’abbia = sabbia “che per sé stessa è levata a volo”

*** ITER ***

 

La strofa I è introduttivo-descrittiva di un cosmo anomalo (autografia). La Dama non si nasconde sotto il velame di Petrarca, Petrarca anzi svela la Dama.

Sezione drammatica, II-IV. La strofa II rappresenta l’ingresso della Donna in un bar-pub, al termine della giornata. E’ il momento della soddisfazione. Lì ritrova un “ex” (termine triviale che tuttavia conserva la dignità della sua latinità e della valenza cronotattica) che sta con la nuova amica, ma egli è già sconfitto nell’atto compiuto. La strofe III schiude la seduzione ed il porno: il maschio (“gran nemico” comparso a strofa II, √ If. 6,115 e così detto per sana e motivata misandria) non si accontenta più di mirare, deve saziarsi, ma sarà la Dama a vendicarsi, mentre quegli continua a fissare gli occhi celesti di lei. La quale attribuisce invece la palma dell’implicito torneo (“vinse”) a colui che le sembra più robusto (cazzo eretto) e che le riempirà anima e non solo (fellatio, coito). La strofa IV si presta all’ambivalente lettura: A) sessuale: “Dogliosa” rammemora il verso sforzato e quasi ululato della partoriente, ma in endiadi a “secca” (corsivo) si disegna una vagina poco lubrificata all’inizio dell’amplesso, selvaggio (“più salvatica”), ambiente in cui “SI lunghi” (orgasmo vocalizzato) sono “martiri” (vox media: sdrucciola, indica che i gemiti sono testimoni del godimento, in questa lettura); B) elegiaca: triste ma decisa, “secca”, ella troncò la relazione con il “gran nemico” affrontando il lutto (sì lunghi martìri, in questa accezione parola piana, e rimante con sospiri), rendendosi scontrosa (“più salvatica dei cervi” : cervi / daino / “cervo a primavera”) e tuttavia poi superiore “non curando speme né pene” salvo colpire (come Diana cacciatrice e suo fratello Febo) con durezza mitologica.

La strofa V è intrisa di solipsismo (triplicatio di “so”: ma secondo una numerologia apocalittica il 3 si fa 4 unitamente al “so” in VI): è l’insonnia (“Duro letto, dama sente”, ottonario con cesura al mezzo), la musica metallica di accompagnamento, il growl (“rugge”), il disfacimento “drogato” (cfr. VI, “e ne le vene vive occulta piega”) ed affiora un languore di non-solitudine (corredato da ira montante) (fame e sete / oltre che “sete” plurale di un tessuto cilestro oculare). La Dama racchiude emblematicamente eros e thanatos. L’esperienza vitale opprime e scandaglia valvole di sfogo, prima la via della Scrittura. La strofa è cerniera al lungo cuore autografico del Testo (strofe VIII-XIII) nel quale le pericopi pertrarchesche concedono maggiore spazio alla scrittura propria, stilizzata. E qui trovano alloggiamento il conflitto con la cupidine, la pubblicazione autorale (“e la boriosa impressa avea”, VIII), il ritratto fisico (in corpo d’opera, secondo il modello della Vita cesariana), la inattingibilità (e la non conformazione: “né volle catene”, ma borchie e lucchetti), la sessualità[6], la consapevolezza della dimensione autorale (“Diva son io” – ma in calembour con reci-diva, XIII; l’allusione è alla «Dafne» del Rinuccini).

La strofa XIV interrompe la sezione centrale, che assume retrospettivamente una connotazione oracolare (“Così parlava” di tradizione biblica o delfica), ed aggancia un portrait. Sono rappresentati l’evento dell’incontro con la Dama e la noce “poetica” (poiein).

*** CLAUSOLA ***

La clausola, incentrata sul
concetto beniano di “destino” , si avvolge di retorica (“scriva” rimante con “viva”, perché vivere è scrivere e viceversa; così si abbinano anche “disperata” e “donna” (le pluralità di delta) “e chiara” (dove et latino) una volta (favolistico, ma anche con rinnovazione dell’unitarietà nell’unicità). “[in eterna brama]” miscela la Regina Grimilde (dark lady), la sessualità, la sjragiV (brama = bramire = daina = daino = dama).

 Jacopo Riccardi
[che Dama ringrazia e s’inchina]


[1] Semplice ma infida, la preposizione“di” rischia di apparire genitivo possessivo

[2] Cfr. G. ROSSETTI, Il mistero dell’amor platonico del Medio Evo derivato da’ Misteri Antichi, Londra 1840, vol. III, pp. 933-934.

[3] Cfr. strofa V.

[4] Cfr. Margherita RUBINO, Fedra. Per mano femminile, Genova 2008.

[5] Cfr. G. COLLI, La nascita della filosofia, Milano 1975.

[6] Cfr. in XV “Co la lingua a sua voglia lo vinse” dove la Parola scritta è epidermica e tattile e vincente come una lingua sul sesso eretto.

IL TUO MESSAGGIO

 

CARMELO BENE E L’INDIFFERENTE PROSSIMO TUO
[IL SERVO DELL’INSOLITO,
breve manipolazione monologante

Testo on web @ Post Populi:
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