LO SCANDALO DELLA LINGUA: Luigi Metropoli intervista Chiara Daino

 

L.M. Nella tua scrittura poetica adotti spesso le forme chiuse, metriche ferree e prosodie rigorose. Eppure all’interno dello stesso libro, la varietas di queste forme è sorprendente, come sorprendente è la malleabilità che queste assumono sotto il tuo lavoro di cesello. Al contempo la veste lessicale è completamente ritessuta: parole inventate e altre decapitate, arcaismi che ritornano, preziosismi ed escursioni in registri allotri a quello poetico; in questo smottamento lessicale e ricostruzione linguistica è l’ambito semantico a essere straniato: rimandi continui tra sensi allusi e dichiarati, e soprattutto unità di significato che sembrano attendere l’oralità (o meglio: la vocalità) per assumere ulteriori sfumature, significazioni. Infine la criptocitazione e la riscrittura. Una lingua (e una poesia) che cresce su se stessa. Ci puoi raccontare (non spiegare, ma raccontare) la genesi dei tuoi versi? Restando su un repertorio poetico, quanto incidono i testi altrui (più che letture, direi assimilazioni) nell’elaborazione dei tuoi?

C.D. Come nascono le mie poesie? Sarebbe più facile trovare la fattorizzazione di due numeri primi con più di dieci cifre l’uno – che rispondere, rendendo comprensibile ad altri quel Δαίμων (dáimōn) tutt’ora incomprensibile a me [nonostante mi alberghi in cranio e occupi la mia carcassa]. Spiegare come nascono le mie poesie è come provare a dire che lo spazio può suddividersi in infiniti sottospazi e questi a loro volta, ricorsivamente, in altrettanti frazioni di spazio, quando l’aria che ti separa da un ceffone in arrivo sta diminuendo sempre più: se lo spazio è infinito, un ceffone non arriverà mai a destinazione perché dovrebbe oltrepassare infiniti spazi. E provate a spiegarlo alle gote tumefatte dei miei ex…

Semplificando: come nascono le mie poesie è un processo di gestazione che non conosco e non voglio conoscere [e quanto è palese che mi scelga amici matematici per concertare assurdi paralleli poetici?].

Alle risposte sbavate da Cane di Pavlov preferisco i paradossi alla Gatto di Schrödinger – se solo il pubblico non mi ragliasse invettive confermando l’onnipotenza e l’onnivalenza dell’Asino di Buridano – ma non sarebbe, chiaramente, corretto cavarmela «alla Pratchett»…

Daino, quindi, dirà dei versi e delle liriche – più che delle poesie [termine ormai logoro e abusato, come logoro e abusato è scrivere logoro e abusato]: l’animale geneticamente predisposto reagisce a uno stimolo che l’anima filtra e l’artista perfeziona.

Il pretesto poetico è sempre un pre-testo che si scatena quando la mia cinesfera è biglia di cristallo che si scontra con i globi di granito dell’accadere antropico, tintinnando un motivo: matrëška di sensi che devono, sempre e comunque, concertare suoni. Siano echi di antichi aedi o accordi minori; siano rimbombi metallici o ritornelli scapigliati; siano ripercussioni dell’orecchio onnivoro che conclude il timpano interno – è il ritmo il reale rapace che mi radica. E recupera e rimesta: cultura classica e volontà ferrea, indole bambina e struttura chiodata, sorriso di Sfinge e ghigno da Stregatto, grazia e violenza, ricordi di strada e pupilla lucida. Una leccata e un’unghiata, nella pescina veste ossimorica.

È la continua azione gastrica che infiamma, ingoia e vomita senza possibilità altra: la facilità di parola non si conquista e non si acquista, è innata. L’unica scelta possibile è accipere o remittere, l’Aut-Aut amletico: «To be or not to be, si è o non si è». E se si è – si deve essere: una traduzione assidua, anche quando libera o sbagliata, si deve giurare amore e fedeltà alla parola che ci incarna e ci rappresenta, di maschera in maschera per la varietà ventriloqua che rende unica e nuda ogni manifestazione umana ed artistica.

Per questo sono allergica alla Livella dei mortinvita che ottimizzano ogni metro quadro come un’opera di Romero, per questo non sopporto il continuo gloglottare la stessa identica banale motivazione: «scrivo perché ho qualcosa da dire». Sì, anch’io: ma vaiaffarinculo te, il tuo ho qualcosa da dire, il tuo definirti artigiano e non artista perché artigiano suona equochic, la tua modestia simulata quando ripeti che devono dirtelo gli altri se tu sia bravo o meno, il tuo scrivere poesie per esprimere un’emozione, il tuo straminchia di pistillo malconcio che ti ha illuminato sulla via del Basko facendoti scoprire Bashō per assonanza mistica preconizzata nel consesso del brodo primordiale da un pantheon iperuranico sconosciuto ai più, …

Scrivo perché questo è il mio ruolo, come lo è stato Nina a Teatro o il growl intestino spolmonato di palco in palco. Scrivo perché recito, recito quando non scrivo, canto quando rugghio un diverso attributo per lo spettacolo che sono e che ho scelto: non aggirare l’ostacolo, ma esserlo!

Tre, due, uno: mi accendo una sigaretta e aspetto il rimprovero tritato con spolverata di prezzemolo… Mi offra un Cuba Libre [chiaro e pestato] chi ha capito! E non osate bicellarmi sul musoil detto latino NOMEN OMEN ché Chiara non è mai chiara proprio per onomastica del tria nomina: Chiara è praenomen e nomen è Daino, omen di Dama.

Non è una risposta da poeta, mio Geniale Lettore, ma prego portare pazienza: il mago che svela i suoi trucchi non ama la magia.

[Tra parentesi: da anni, ormai, si incontrano di nascosto, a las cinco de la mañana, contrappunto orario per  tributare Garcìa Lorca, in qualche Bar di Caracas o nelle fosse di Moers, ma non sarò certo io a privare gli esegeti del loro mestiere!]

Sempre restando sulla riscrittura e sul gioco delle fonti, tu hai avuto l’”ardire” di riscrivere Dante, il totem della nostra letteratura, con un testo che si chiama Metalli Commedia. L’esperimento è tanto più scandaloso, se si pensa al palese intento ironico e all’adattamento dello spirito dantesco a quello del metal. Hai inventato/ripreso un ipotetico italiano trecentesco, infarcendolo di riferimenti al mondo della musica metal e al tuo personale. Si tratta semplicemente di una provocazione, di un’operazione che intende “promuovere”, come dici tu, la valenza culturale e poetica del metal o è piuttosto una necessità di confrontarsi ancora con la lingua, al punto di scomodare Dante?

«Si è obbligati allo scandalo, quasi fosse la “prima comunione” con l’indifferente prossimo tuo»: e come Carmelo mi è Stella di Betlemme, così cavalco una cometa in puro stile Manowar. E mettiamo i puntini sulla o di Motörhead – affinché l’umlaut sia impronta definita e definitiva: Metalli Commedia NON è una parodia! Coraggio, Geniale Lettore, ripetilo a voce alta per 4755 volte: «Metalli Commedia NON è una parodia!». Pur essendo entrambi di Genova, «Nel mezzo di casin di nostra vita» [Mondadori, 2011] di Maurizio Lastrico è opera/operazione COMPLETAMENTE DIVERSA da «Metalli Commedia» [Thauma, 2010 – e Case Editrici e  anni di pubblicazione sono volutamente indicati].

Metalli Commedia, come Luigi Metropoli [santo subito!] sottolinea, è una riscrittura. E NON è una riscrittura parodica, nel caso qualcun altro [sì, ho le membrane timpaniche rotte e le retine lese per tante assurdità ascoltate e lette] si sentisse obbligato a confinarmi in un genere che non mi appartiene. Ho amato l’Inferno di Topolino come i Promessi Topi e i Promessi Paperi – ma parodia e riscrittura restino distinte!

Confrontarsi e recuperare la lingua dantesca, le terzine incatenate di endecasillabi, la struttura poematica della Comedìa – amalgamando Cultura e tradizione Metal, feroce critica artistica e sociale, richiami al mondo del Teatro della Pittura e della Poesia, citazioni e tributi, mistilinguismo e generi letterari, traduzioni e prosodia, storia e Stratocaster: è stato davvero un viaggio all’Inferno e dall’Inferno, attraverso i mondi. Highway to Hell che, Blake docet [e Virgin Steele ben lo sanno], sposa Stairway to Heaven.

Nei tuoi scritti c’è sempre un io ipertrofico, sia nella poesia che nella prosa. Non di rado c’è un lato biografico dominante, con riferimenti nemmeno tanto traslati. È più la tua vita ad entrare nella scrittura o è la scrittura ad aver colonizzato la tua vita?

Partiamo dal lato biografico: non bisogna confondere la biografia con la «frittura diaria». La biografia di ogni autore [e di ogni artista] è imprescindibile, così come la sua fisiologia, la sua storia clinica, il tessuto sociale, il contesto famigliare e geografico, et cetera… L’ossessione biografica mi aiutò anche all’esame di maturità quando il commissario esterno mi chiese la differenza fondamentale tra Schopenhauer e Kierkegaard, forse convinto di una risposta basata sulle Opere a confronto. Giacché l’Italiano non è un opinione e «la verità riposa sul testo», scandii sicura: «la coerenza». Iniziai a discettare di Søren e del suo rapporto con Regina, delle accuse d’ipocrisia che rivolse ad Arthur, dell’identità Vita-Opera. Esposizione fieramente verbosa che terrorizzò i miei compagni maturandi giacché il nostro docente di filosofia, per tutto il lustro di Tartaro Classico, ci fece sbarrare il paragrafo biografico poiché trascurabile…

Aneddotica per precisare la differenza tra biografia e diaristica adolescenziale. E non solo: detesto anche il riproporsi dello sciatto interrogarmi «di CHE COSA parla il tuo ultimo libro?» – trattandosi di quesito mal posto. «Di CHI parla il mio ultimo libro» è l’interrogativo pertinente, discettando di UMANE LETTERE e l’Umanità è una cascata di collisioni biografiche.

Ficcando le granfie nello specifico della mia scrittura: mai avuto la vocazione da eremita [forse da trappista, ma non da eremita] e troverei ipocrita strutturare una rima di frattura senza che il mio scheletro ne avesse memoria. Rem tene, verba sequentur, giusto? Devo possedere l’argomento prima di metterlo a segno parola e attraverso quale processo? Non era forse l’umbilicus ad incollare i fogli di papiro? Ho macinato più chilometri intorno al mio ombelico di quanti ne assommano insieme Marco Polo, James Cook e Naomi Campbell. Pure: pubblicai solo DOPO essermi confrontata con ombelichi estranei…

Un critico [che poi è Jacopo Riccardi, l’esegeta mio unico] mi riassunse come «pontefice in senso etimologico»: e come potrei vivere da ponte, come potrei scrivere da ponte – senza scortecciarmi la carne? Non ho paura delle ferite perché ho troppa fame e m’attuffo decisa, identità multipla, cosciente di quanta Bellezza e quanto Orrore regalino i traffici sociali. Mai erigerei alibi per non tendere l’arco: βίος e Bias. Di conferma e di verifica per il mio investimento umano.

Controcanto e contrappasso: la scrittura colonizza e condiziona ogni mio respiro e, recentemente, anche ogni mio rapporto, reso un rapporto anaforico grazie al reiterarsi di una monotona convenzione linguistica

– E tu cosa fai nella vita?

– Non faccio un beneamato. Sono

– E cosa sei?

– Non una cosa

– Cazzo se sei acida

– E fastidiosa, me ne rendo conto…

– E chi sei?

– Sono uno scrittore

– Sei un maschio?

– No, un uomo di genere femminile, ma ti risparmio il casino creato dal protofrancese e le ripercussioni storiche date dall’eguaglianza HOMO = VIR

– Però, parli davvero difficile. E cosa scrivi?

– Libri?

– Intendevo, libri di cosa? Di cosa parlano?

– Non di cose, ma di chi e di come

– Cheppalle! Non capisco quando parli, ma di lavoro cosa fai?

– Questo

– Dico sul serio…

– Anch’io

–  Non sei famosa come Faletti o Saviano, Camilleri o Carofiglio, come ti mantieni?

–  Come tutti. Sopporto, combatto, resisto. E Mangio poco

– Ma da quel che vedo bevi tanto e fumi troppo. Cos’è? Mancanza di autostima? Autodistruttiva da manuale o ti piace fare la figa incompresa? Vuoi farti la reputazione di artista maledetta?

–  No, Benedetta. Mi nutro di Carmelo

– Cioè? Questa non l’ho capita

– Sopravviverò anche a questo dolore

– Sai che anche io scrivo?

– Mi sarei stupita del contrario…

– Ti trovo in rete? Magari ti mando qualcosa di mio…

– Fammi indovinare: poesie, racconti brevi e un abbozzo di romanzo che da anni non riesci a concludere…

– Come lo sai?

– Ti ho mentito. Sono una strega

[…]
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LO SCANDALO DELLA POESIA

PAROLE & IMPEGNO

 

Nuovi autori Poeti dissidenti, criticano l’omologazione del consumismo e dello spettacolo

Versi che parlano anche al movimento: «Ci sognavate tutti tronisti e veline. Vi sbagliavate»

 

Lo scandalo della poesia che si permette di fare politica

 

Sanchini, Antonello, Zattoni, Daino: quattro poeti a cui la sinistra italiana, erede di Gramsci e Pasolini, dovrebbe dare voce. Alla crisi della politica questi giovani poeti offrono una direzione verso cui guardare.

 

Da leggere – Voci critiche per sonetti e poemetti

Voci giovani di poesia, poeti se non militanti, ma molto critici con l’omologazione culturale, il degrado del linguaggio e dei valori. Parliamo di Stefano Sanchini che ha all’attivo la raccolta «Interrail» (Fara), Danni Antonello, che ha pubblicato il poemetto politico «Italia», di Matteo Zattoni, che ha tre raccolte in libreria («Il nemico», Il ponte vecchio, «Il peso degli spazi», LietoColle e «L’estraneo bilanciato», Stampa); infine di Chiara Daino, autrice del romanzo «La merca» (Fara).

 

La sinistra – Dov’è finita la questione culturale? Chiedono i quattro autori.

 

 

Dietro la grande rappresentazione della banalità omologata italiana, cresce e si sviluppa una nuova generazione di poeti italiani. Nati a cavallo tra gli anni ’70 e i primi ’80, studiano Pasolini, criticano il presente, criticano l’omologazione del consumismo e dello spettacolo. «Profanare il tempio delle banalità di massa con lo scandalo della poesia. Oltraggiare l’epoca a colpi di amore». La sinistra dovrebbe saperli accogliere, promuovere, incoraggiare. Non lasciare disattesa proprio la gramsciana «questione culturale» di cui invece si appropria la destra, con i vari Dell’Utri, Crespi e Davide Rondoni. È sempre una violenza costringere la poesia a categorie di lotta politica; ma pure questi giovani scrittori molto avrebbero da dire ai ragazzi che si sono riconosciuti nello slogan: «Ci sognavate tutti veline e tronisti: vi sbagliavate».

Pensiamo al marchigiano Stefano Sanchini (1976), il cui esordio risale al 2008, con la raccolta Interrail (Fara) e con il poemetto di teatro in versi Via del Carnocchio, roversianamente ciclostilato in proprio ed altrettando distribuito. Immaginiamolo in piedi, dunque, nel mezzo di un incontro pubblico, scandire con voce di fuoco: «aspiro ad essere / l’anello malato della catena di montaggio / aspiro alla solitudine e all’ingiuria / ho paura, certo / il sogno era un altro e c’erano gli altri / con il loro viaggio a incontrarsi / che vivi siamo in questo tempo / ma dove sono gli altri? Dove / le provviste?».

Danni Antonello (1978) è invece un giovane poeta veneto, traduttore dal francese, direttore della piccola ma sempreverde casa editrice La spina, in provincia di Padova. La sua parola, orfica e incivile, ci ricorda Dylan Thomas, Jean Genet, Rimbaud, la sua rivolta è anarchica e individuale: «come il gabbiano che controvento / cede alla raffica e vira». Maleggiamolo anche dal poemetto politico Italia, stampato dall’Istituto veneziano per la storia della resistenza e della società contemporanea, in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione: «In viale dei tigli ad ogni tiglio sta appesa una corda, / spessa quanto forte quanto duro è il collo spezzato / dell’uomo che ha impiccato: l’antifascista, il partigiano / che un secondo prima di morire muto come l’orgoglio / dentro di sé ha pensato: / “Non basteranno tutti i tigli del mondo / per impiccare un popolo”».

Del lombardo Matteo Zattoni (1980), già uscito con Il nemico (Il ponte vecchio, 2003), Il peso degli spazi (LietoColle, 2005) e L’estraneo bilanciato (Stampa, 2009), ha già ben scritto Gianluca Pulsoni: Zattoni «legge il mondo come luogo del pensiero e del possibile recuperando il desiderio poetico e “politico” di tornare a percepire la realtà nel suo dinamismo dialettico. Per esprimere, nel suo realismo, l’immagine come contenuto di verità e domanda». (La Gru n.5, luglio 2008). È vero, se nella silloge dall’evocativo titolo situazionista Il mondo senza spettacolo il poeta profana il dogma del controllo securitario e finanziario («Adoro sorridere dentro le banche / alle loro telecamere, alla ricerca del piccolo / particolare l’idiota mi scruta con grande / attenzione, forse allerta il servizio / d’ordine – cos’avrà quello / da sorridere?») e amaramente ci interroga: «come fare a cambiare il mondo / se non riusciamo neanche più a cambiare / canale (…)?».

Infine spostiamoci a Genova per incontrare Chiara Daino (1981), sorprendente rivelazione della nuova scrittura italiana in prosa ritmica ed artistica. Il suo amalgama linguistico di basso gergo giovanile ed alta sperimentazione letteraria (con grandi riferimenti, da Emily Dickinson ad Amelia Rosselli), tra citazioni rock e tensioni escatologiche, ci parla di una lotta intestina tra l’io e la storia, tra corpo individuale e mondo socializzato. Il suo primo romanzo, La merca (Fara, 2006), ha la voce diretta e non mediata di una dca (disturbi del comportamento alimentare). Priva di pietismi e morali esterne, la Daino ne approfitta per un feroce affondo generazionale: «Questa è la generazione di Jenny. Meditate, genitori, meditate. Pensierino del giorno: le cellule impazzite della generazione, da voi generata, dovrebbero impedirvi di dormire sereni (…), il frutto del vostro ventre si getta dal palazzo più alto perché ha preso solo un 27 all’ultimo esame e non vi ha resi abbastanza orgogliosi: non ha compiuto “il suo dovere”».

Sanchini, Antonello, Zattoni, Daino: quattro, di una lunga lista di nuovi autori a cui la sinistra italiana, erede di Gramsci e Pasolini, dovrebbe dare voce. Insomma, torni la sinistra ad investire sulla cultura: alla crisi della politica omologata e scollata dal reale, questi giovani poeti italiani sanno rispondere, offrendo, se non ancora una risposta, una direzione verso cui guardare. Ascoltiamoli.

 

Davide Nota

[l’Unità, 18 agosto 2009]

http://davidenota.splinder.com/post/21141057/%22Lo+scandalo+della+poesia+che+

http://farapoesia.blogspot.com/2009/08/sanchini-antonello-zattoni-daino-e-lo.html