La lupa
oggi ha sgranato il suo occhio di falco e ha depredato per voi (e per lei) Nazione Indiana. Ecco la “preda” – tra ricordi, film, viaggio (e si ringrazia per la concessione con-divisione).
IL POSTO di Franz Krauspenhaar
Cara mamma, finalmente ho trovato un po’ di tempo e di pace per scriverti. Torino non pensavo fosse così bella. C’è quella tranquillità movimentata che a Milano non potrà mai esserci. Milano: il posto più inutilmente esagitato del mondo. Comunque, tutto bene. Col lavoro mi sto ambientando, ci vuole del tempo, lo sai. Eh sì, tu lo sai, sì, che mi hai visto crescere in tutti i sensi, in quegli anni 60 di frenesia composta, la frenesia del boom, lo scoppio della bomba della speranza felice. Ricordi quel film che parlava di Milano e del lavoro? Il posto, si chiamava. Lo vedemmo insieme il giorno che chiusi con quello di Monza. Ero furioso. Io prima avevo riso sguaiatamente per scaricare la tensione, e tu mi dicesti: ma che ti succede? E io: niente. Poi mi venne ad abbracciare malignamente una stretta di malinconia, e così mi venne in mente quel film. Quando sono triste non ho voglia di cose allegre, in questo sono coerente, sono coerente nelle voglie.
Quel posto: che lo si cercava, e che si cerca ancora, con affanno, con speranza, con bisogno. Il posto nel mondo, nel proprio, in quello degli altri. Il posto raccomandato, denudato di una scrivania che hanno tolto per far spazio a una fila di armadi messi sull’attenti, come soldati ammutoliti, fermi sulle loro posizioni. Il posto che non si trova più ma che io non ho più trovato anche perché non l’ho più voluto. Il posto che è un flebile filo, teso a strapiombo sul futuro, che a gran voce domanda, in un coro stonato. Ti ricordi quando cominciai? Avevo una voglia incredibile di farmi sotto; ed erano gli anni 80, e così succedeva a molti. Milano. Anni 80. Da bere. Rimasti a metà bottiglia, quegli anni; e Craxi, ubriaco fradicio, prende la braciola di maiale con le mani, azzanna, e muore, così, da un momento all’altro, seppellito dalle monetine, dai fischi, dall’afa africana del suo buen ritiro. Negli anni 80 trovare lavoro era facile, lo sai. Come alla Scai, in via Paleocapa; e accanto a noi c’erano gli uffici della Fininvest. Cesare Cadeo, il presentatore, si tingeva i capelli per far piacere a Berlusconi. Passava spesso per la via, con attorno, irradiante, un’ aria di ottimismo spaziale, inattaccabile, una specie di lacca aureata. Più avanti, o più indietro, c’era un bar tipicamente milanese, uno di quei bar che non ti piacciono, e in questo hai parzialmente ragione: stuzzichini, panini, tutto declinato in ini. Ci veniva Fabio Capello, l’allenatore. Si allenava ancora per diventarlo. Tutt’altro tipo che in televisione: faceva lo smargiasso con una bionda vaporata di fresca cotonatura, una signorina grandifirme dell’epoca. E si marciava su Piazzale Cadorna, alla fine dell’orario, a passo di carica, con nelle orecchie la musica dei Weather Report. O dei Frankie Goes to Hollywood, specie con quella canzone martellante d’elettronica che diceva a rullo Relax. Relax don’t do it. Hai presente? Ma no, non hai presente, certo.
Dunque, mamma, ti ricorderai però quel film che vedemmo quella sera: Il posto, di Ermanno Olmi. Il regista bergamasco che lavorava alla Edison alla fine degli anni 50, girando per la società elettrotecnica documentari aziendali. Allora fu questo il traino che lo portò a girare questo film lieve e discreto come una tazza da tè; che ti annoiò parecchio, me lo ricordo bene. Esile, quel film, come Carla Fracci che piroetta alla Scala, mentre suo cugino Riccardo, al Giambellino, faceva il perdigiorno talmente bene che Umberto Simonetta ne cavava il testo per La ballata del Cerutti di Giorgio Gaber. “Il suo nome era/ Cerutti Gino/ ma lo chiamavan drago”. Questa te la ricordi di certo, e magari ti fa esplodere dentro tanti ricordi a colori.
Quel ragazzo de Il posto, che ottiene a Milano un posto di aiuto usciere, sembrava proprio un tipo venuto da un altro pianeta, soprattutto allora, quando vedemmo il film. Così dimesso, così semplice. Ti ricordi? Conosce una ragazza durante l’esame d’assunzione, ma non riesce a vederla mai perché lei lavora in un altro reparto. Ecco, una donna che ci interessa può sparire nel nulla anche all’interno di un’azienda; l’azienda è un mondo di magma umano che s’incanala in diverse tubature che spesso non s’incontrano, non hanno giunture di comunicazione tra loro. Il giovane non la ritrova, è un muoversi, il suo, all’interno di una specie di kafkiano opificio, il posto lo ottiene, sì, ma la ragazza è da qualche parte che non sa e non scopre, inserita in una mansione diversa, e non c’è verso di riacciuffarla per viverla. Il posto è un malinconico refrain che va avanti all’infinito. E’ un film sul lavoro che passa come il tempo. Sull’illusione che ci sia qualcosa di fisso, di stabile. In un certo senso anticipa il futuro, il nostro presente d’instabilità ufficializzata dall’unanime coro dei massmedia.
Mi ricordo bene che Tognazzi non ti piace; dici che lo trovi viscido. A me ha sempre fatto molta simpatia, invece; sul suo volto che sembrava di cuoio calzaturiero c’era la smorfia autoironica del gaudente triste, incapace di esagerate accensioni, ma costante nel suo in fondo sotterraneo sottostare con arresa complicità alla passione dei sensi. Anche quel film lo vedemmo insieme, La vita agra, di Carlo Lizzani. E ti detti da leggere anche il libro da cui il film era tratto, il bellissimo romanzo di Bianciardi. Ti piacque molto, sei una lettrice scomposta ma appassionata, come me. Intanto l’immaginaria (perché da me mai sentita) parlata livornese di Bianciardi mi ronza ancora, ogni tanto, nelle orecchie, come un missile sonoro. La sua traduzione, indimenticabile, di Tropico del Cancro di Henry Miller, altro libro che ti detti ma che tu non amasti molto, mi torna su a microscopiche ondate come un retrogusto linguistico affabile e incisivo. Bianciardi ha fatto rivivere uno scrittore in un’altra vita, gli ha regalato sapori di Toscana, lievemente ma con decisione, ha riscritto il libro con una maestria che lascia stupefatti. La vita agra, dunque: il film non è eccezionale, lo dicemmo entrambi durante e dopo; perché la butta spesso in burla da commedia all’italiana, e Tognazzi come traduttore/Bianciardi è poco credibile, mentre la Ralli, invece, nei suoi panni di romana a Milano ci sta bene. Si, lo so che anche la Ralli non ti piace, ma come attrice secondo me ha sempre messo in mostra una sensualità di contaminazione, tra il popolare e il borghese, una sensualità d’indefinita provenienza, come un profumo di cui non riusciamo a capire gli ingredienti ma che allo stesso tempo ci è per qualche strana ragione familiare. Ecco comunque il lavoro intellettuale, quello che da alcuni anni faccio anch’io; ed ora scopriamo che allora, negli anni 60, l’intellettuale faceva la stessa fatica di oggi. Che doveva arrangiarsi. Che aveva voglia di far saltare il Pirellone, anche se oggi l’intellettuale non lo dice, non vuole farsi passare per un intellettuale terrorista islamico.
Quel romanzo è un sottile monumento. Lo scrittore vuol prendere a legnate la società del miracolo italiano, la borghesia intellettuale dell’epoca, e ne viene paradossalmente castigato: tutti lo portano sulle spalle come un trionfatore; è il successo di critica e di pubblico, è l’integrazione nella società letteraria. Ecco il rischio che può correre lo scrittore rivoluzionario, se non nello stile, nel sentire la vita come un’urgenza di cambiamento: di avere successo, di essere accorpato nella marmaglia di lusso. E Bianciardi ci rimise ancor di più la salute, finì in crisi, aumentò le dosi del bibendum, quello che il suo concittadino Piero Ciampi aveva celebrato nella canzone Il vino. Te lo ricordi Ciampi, no? E’ che il lavoro, per Bianciardi, era quello del tradurre più che dello scrivere. Era interpretare, come Mina, come la Vanoni. Il traduttore interpreta testi d’altri, come un cantante di quel calibro, come le tigri di Cremona, le pantere di Goro. Mai abbastanza lodati e considerati, i traduttori, poi. Bianciardi era non tanto un cantautore, come per l’appunto Ciampi, che negli anni 70 scrisse una delle sue più belle canzoni, Il lavoro. Parla alla sua donna, che gli chiede per l’ennesima volta se ha trovato questo benedetto posto, e lui è imbarazzato, innamorato, disperato, tutto insieme:
Il lavoro? Ancora non lo so.
Mi hanno preso? Non mi hanno detto niente.
E allora? Ti ho detto, non so niente.
E allora? Allora non lo so,
non lo so, non lo so, non lo so,
non lo so, non lo so.
Ti ho portato qualche cosa che ti piacerà,
ecco il giornale e un pacchetto di sigarette
e dietro a me c’è una sorpresa,
un ospite, un nuovo inquilino:
c’è la mia ombra che chiede asilo
perchè purtroppo anche stavolta
devo dirti che è andata male.
Ma non è successo niente, non è successo niente,
fai finta di niente, non è successo niente,
accendi una sigaretta, chiudi la finestra
e spogliati…
Io ti porto a nuotare,
ti faccio vedere la schiuma bianca del mare,
niente suoni, io e te soli
io e te soli, io e te soli.
Lui torna senza il lavoro e poi divaga, tenta di distoglierla, s’aggrappa all’amore, questa cosa che serve per dar da mangiare all’amore stesso, per riempirgli lo stomaco, ma che per l’anima dell’amore fa male, ci fa a pugni, a volte. Ora penserai: ma che centra? Beh, sono cose che ho vissuto anch’io, perché non c’è niente da fare, in un artista che ami al primo ascolto o sguardo o lettura troverai sempre certe conferme; l’artista che ami ti confermerà la tua vita, certe tue scelte, certe tue sconfitte, certe tue tappe vittoriose.
Allora, nei 60, quando mi portavi a spasso col passeggino da Buccinasco a Milano, prendendo il trenino, e facevamo quelle lunghe passeggiate fino in centro, di cui so perché tu sola me ne hai parlato, c’era anche tanta poesia che si svecchiava e si dava molto da fare a raccontare il nuovo, il lavoro, il nuovo lavoro. Il riminese Elio Pagliarani, trapiantato a Milano, con gli occhi da medusa del foresto raccontò dell’impiego ne La ragazza Carla, che ti trascrivo nell’inizio perché merita:
La ragazza Carla
Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego stenodattilo
all’ombra del Duomo
Sollecitudine e amore, amore ci vuole al lavoro
sia svelta, sorrida e impari le lingue
le lingue qui dentro le lingue oggigiorno
capisce dove si trova? TRANSOCEAN LIMITED
qui tutto il mondo…
è certo che sarà orgogliosa.
Signorina, noi siamo abbonati
alle Pulizie Generali, due volte
la settimana, ma il signor Praték è molto
esigente – amore al lavoro è amore all’ambiente
[- così
nello sgabuzzino lei trova la scopa e il piumino
sarà sua prima cura la mattina.
UFFICIO A UFFICIO B UFFICIO C
Perché non mangi?
Adesso che lavori ne hai bisogno
adesso che lavori ne hai diritto
molto di più.
S’è lavata nel bagno e poi nel letto
s’è accarezzata tutta quella sera.
Non le mancava niente, c’era tutta
come la sera prima – pure con le mani e la bocca
si cerca si tocca si strofina, ha una voglia
di piangere di compatirsi
ma senza fantasia
come può immaginare di commuoversi?
Tira il collo all’indietro ed ecco tutto.
Ed ecco tutto. Uno spaccato che incide, il boom, l’industrializzazione, l’alienazione. Milano, con quel Duomo d’un gotico pesante che guarda dall’alto tutto e tutti, e “all’ombra del Duomo” non c’è solo la Transocean Limited, ma tutte le strade, tutti gli anfratti. Il Duomo è ancora un simbolo di ridondante capacità, è una longa manus che serra la città in un abbraccio d’estremo ingombro.
Nel 64, quando nacque Ernesto, ecco apparire la congiuntura, il boom s’era sgonfiato, si cominciava a parlare di crisi. Io non avevo neanche 4 anni, per cui ho solo il sentito raccontare; una volta mi dovresti dire come l’hai vissuta tu, la congiuntura. E poi gli anni passarono; e attorno a quegli anni, a Torino, Piero Cavallero e la sua banda di banditi rivoluzionari seminava il terrore costruendo un mito, andando a cercare il lavoro direttamente nelle banche, come una banda di feroci Robin Hood d’una rosa rossa extraparlamentare, assetati di riscatto. Finché nel settembre del 67 la banda Cavallero, in trasferta a Milano, fece l’impiccio definitivo, tu ricordi bene: dalla zona Fiera di Largo Zandonai, dov’era installato il Banco di Napoli dell’ultimo bottino, la volante della morte compì errori su errori nel suo tragitto sanguinante e sanguinario; morti, feriti. Nella nostra zona, nel piccolo parco, in piazza Siena, una rotonda; e quel pomeriggio con te ed Ernesto non lo scorderò mai; io giocavo con le macchinine nella ghiaia, sentimmo sparare, alzai la testa e vidi una 1100 scura inseguita da due, tre pantere Alfa Romeo della polizia. Si sparava da una parte e dall’altra. Il panico. Tu ci strattonasti via, assieme ad altre madri terrorizzate. Attraversando la strada le auto frenavano di colpo per non travolgerci. C’era un bar, subito: il barista voleva darti un cognac perché tremavi come una foglia e tu non l’accettasti, ti fecero sedere vicino al biliardo, sconvolta, ti dettero un bicchiere d’acqua. Mentre Cavallero e i suoi andavano a infognarsi lontano, per l’ultima corsa, sparando all’impazzata. Questo ricordo mi fa venire in mente un altro film di Lizzani, Banditi a Milano, girato pochi mesi dopo il fatto atroce. Tomas Milian commissario, Gian Maria Volonté nella parte di Cavallero. L’auto, il grido del capo: “Tira al camion!”. Volonte’ invece ti piaceva. Un attore straordinario, un pugile camaleonte della recitazione. Comunque: si vede il povero autista che si accascia al volante del suo camion della cartiera. Ecco il posto trovato, ecco il lavoro rivoluzionario che esplode in una blobbante bolla di sangue.
Poi ci furono gli anni 70, gli anni di piombo. Tu non invecchiavi per nulla, anzi per detta di tutti miglioravi con l’arrivo della maturità. Andavo forse già alle medie quando uscì La classe operaia va in paradiso, di Elio Petri. Lo rivedemmo proprio pochi mesi fa, e tu dicesti che Volontè sembrava un cretino così bene che probabilmente mentre recitava si sentiva un cretino. Volontè è un operaio che rappresenta le contraddizioni dell’operaio italiano tipo; una specie di sintesi dell’operaio dell’epoca. Quel film è importante anche perché per la prima volta la macchina da presa entrò in una fabbrica per filmare una storia sull’alienazione, la follia della catena di montaggio, la follia della contestazione studentesca che si sovrapponeva alle lotte della classe operaia. Il Volontè fa un cottimo spaventoso come in un olimpiade, ma questo gli rende la vita invivibile. Quel tipo per me rappresenta anche il tipico italiano interessato solo a se stesso, che decide di scendere in campo (nel suo caso associarsi alla lotta contro il padrone) quando vengono a essere toccati i suoi interessi: ti ricorda qualcuno? Ah penso di sì, cara mamma, tu che hai sempre amato la moderazione, e quando questa moderazione la vedi messa in discussione non ti moderi più, e diventi intollerante, come me.
Invece c’era quell’altro film degli anni 70 che non hai mai capito. Forse perché anche lì vi recitava Tognazzi? Romanzo popolare, di Monicelli. L’operaio milanese che sta con la ragazzina meridionale Ornella Muti, che poi lo tradisce col poliziotto Michele Placido. Io allora andavo alla prima liceo e qualche volta venivo con te e papà al cinema. Lo vedemmo tutti e tre quel film, in centro, non ricordo più in che cinema, forse l’hanno chiuso. Tutta quella nebbia e quel freddo. Le sirene della fabbrica da far venire i brividi. Un film milanesissimo, tutto pieno zeppo di quella Milano che adesso mi sembra simpaticamente stupida. Che mi ricorda di quant’ero stupido nell’andare tutte le domeniche a San Siro, una domenica a vedere il Milan e l’altra l’Inter. Il film fu scritto da Beppe Viola, il giornalista sportivo. E poi quella canzone di Jannacci nella colonna sonora, eccola.
Vincenzina davanti alla fabbrica,
Vincenzina il foulard non si mette più.
Una faccia davanti al cancello che si apre già.
Vincenzina hai guardato la fabbrica,
come se non c’è altro che fabbrica
e hai sentito anche odor di pulito
e la fatica è dentro là…
Zero a zero anche ieri ’sto Milan qui,
sto Rivera che ormai non mi segna più,
che tristezza, il padrone non c’ha neanche ’sti problemi qua.
Vincenzina davanti alla fabbrica,
Vincenzina vuol bene alla fabbrica,
e non sa che la vita giù in fabbrica
non c’è, se c’è com’è ?
Vincenzina era Ornella Muti, così spaurita, così invasa dalla nebbia che invade polmoni e cuore fino al centro del bersaglio. E poi vennero gli anni 80, e di allora non ricordo film, non ho ricordi drammatizzati, ma ricordo il mio lavoro vero; che cominciai da papà per un anno, e poi finii da Franco Sola, il brianzolo pazzo. Ti ricordi che ti raccontavo del ragionier Jacovino, che al telefono, quando doveva presentarsi, diceva col suo accento molisano: “Sono Jacovino. Ja-co-vi-no. Jaco come Jaco e vino come vino”. Eravamo a Sesto San Giovanni, proprio nel cuore della vecchia zona industriale, proprio al confine con Milano, davanti, quasi, alla Marelli. Zona rossa da sempre, Sesto, e in quei primi anni 80 sembrava proprio un’altra entità rispetto a Milano, che s’era imborghesita a una velocità spaventosa; se ne erano andate le ultime camionette della celere da Piazza San Babila, tutte le bombe erano scoppiate, Moro era stato ucciso ormai da tempo, e quell’ultima terribile bomba di Bologna aveva spazzato col suo carico da tregenda gli anni di piombo, col paradosso della verità.
Più vado a rievocare gli ultimi anni che mi separano dall’adesso più perdo interesse; all’attualità, o alla storia giovane, ho perso interesse, già. Forse mi piace ricordare quello che ho vissuto molto sommariamente, per limiti d’età; e ciò che è successo ieri lo voglio dimenticare. Ora, mamma, ti vedo con l’età avanzata, con sempre poche rughe ma con il peso del tempo e dei dolori della vita spalmato sulle spalle; ti vedo sempre candida nel cuore e questo mi pare un bell’esempio anche per me, che forse ti assomiglio, o ti vorrei assomigliare; nella forza, nel candore, nella coerenza. Da qui riparto per nuove mete, guardo la placida sera torinese, il pubblico che è venuto ad ascoltarmi, cerco un abbraccio materno, comunque, sempre. Come nel lavoro ho cercato di vivere, senza riuscirci. Troppa fatica amarsi nel nucleo dell’interesse. Ti lascio questa poesia di Giovanni Raboni, il poeta milanese morto nel 2004, che tanto ho amato leggere. Questa è una delle sue ultime da “Barlumi di storia”:
Si farà una gran fatica, qualcuno
Direbbe che si muore – ma a quel punto
Ogni cosa che poteva succedere
Sarà successa e noi
Davanti agli occhi non avremo
Che la calma distesa del passato
Da ripassare in fretta
Fermando ogni tanto l’immagine,
tornando un po’ indietro, ogni tanto,
per capire meglio qualcosa,
per assaporare un volto, un vestito….
Sì, tutto in bianco e nero, se Dio vuole.
E tutto, anche le foglie che crescono,
anche i figli che nascono,
tutto, finalmente, senza futuro.
La fatica del vivere, la fatica tua e mia, e credo di tutti; il posto di lavoro, il posto geograficamente stabile che è la nostra amata e odiata Milano; il nostro posto nel mondo, dovunque noi siamo.
Non so perché ti ho scritto tutte queste cose. Forse perché ho dovuto riempire la mancanza con il pieno dei ricordi. Il posto di lavoro di anni fa mi fa sentire più vicino a te, più degli antichi giochi nel cortile; ho giocato a lavorare e ho perso; ho cominciato a giocare con le parole e quel gioco è diventato un lavoro. Il posto. Il mio posto nel mondo sono ormai le parole, e allora, se posso darti qualcosa, eccotele.
aprile 2, 2007
Categorie: Senza categoria . Tag:Filmography . Autore: Chiara Daino . Comments: Lascia un commento