LA MERCA: SOUL BRANDING

INVITO ALLA MERCA-TURA, LA LETTERATURA DELLA MERCA
di JACOPO RICCARDI

 

 

À rebours, ma anche in profondità. Leggere l’opera primeva di Daino in chiave retrospettiva, al termine della lettura dell’opera tutta sua edita, consente di seguire nei due sensi di marcia un itinerario, attraverso i più rilevanti marca-sentiero.

La debita premessa è la ristampa, fortemente voluta bottom-up (perché comunque ci vuole anche culo) de “La Merca” da parte di Fara editore (20061; agosto 20122). Cinque anni prima de “l’Eretista”, testo di mole e di articolazione maggiore, Daino [e]ruttava un volumetto snello, dal titolo pregnante, “La Merca”, appunto.

In epigrafe sta scritto “Voi sapete cos’è la merca? È un marchio”. L’asciuttezza definitoria è solo un indirizzo superficiale al lettore, uno sprone ad affrontare le parole come un rompicapo ligneo. La “merca” è il marchio con cui sono segnati a fuoco i capi di bestiame. Un segno di proprietà, uno sfregio, un tatuaggio limitativo, un atto di forza che l’animale subisce. Gabriele D’Annunzio (Forse che sì forse che no) rendeva con animo bruzzio la violenza sottesavi: “la prodezza del buttero nel giorno della merca? La bestia legata e sollevata e marchiata per la servitù”. La merca è uno stupro, che ti segna. La merca ti fa prodotto, ti fa merce. Sei sul mercato, il mercato delle vacche[1]. Merca, attraverso merce/mercato/mercare (verbo che appare anche in Dante) ti proietta al mercimonio. Perché il cuore del romanzo di Daino è la reificazione. Il percorso 2006-2012 della Dama è ricco di evoluzioni, ma è fedele a questo tema, che ha radici autobiografiche inevitabilmente più evidenti in un’opera prima[2].

Il segno dell’alcool, delle sigarette fumate in una catena consapevole di autodistruzione, l’anoressia (campo ovvero tema sul quale la letteratura scorrazza fin troppo liberamente) sono tutti marchi (merche) di Jenny (il cui nome è, ci svela l’Autore in una sorta di sigla di coda, di postfazione, di commiato, un riferimento a Jenny è pazza di Vasco Rossi).

La parola d’esordio è un esclamato “merda”. Non è scatologia, ma escatologia, perché le cose ultime e le cose prime si toccano. Merca/Merda fa scaturire il bisticcio su c/d, che al contempo è il cd musicale (la musica di Vasco, il Metal, colonne sonore) ed è la sigla dell’Autore, la sfraghìs.

Compaiono nella merca i ludi verbali (omografie ed omofonie[3], omoteleuti, rime al mezzo, schizzi enigmistici[4], feticismo etimologico[5]…), riferimenti ad un orizzonte culturale classico specifico (l’interpretazione colliana dell’arco di Apollo, bioV/bios come “arco” e come “violenza” – Apollo l’obliquo – p. 14; il trittico “il fisico, il mondo, la perfezione” p. 19 traducibile in “physis – mundus – kosmos”, i molteplici cammei letterari (Shakespeare, Melville, la Alcott…), musicali (la Caselli, Samuele Bersani, Vasco, Palconudo, Simon & Garfunkel, ecc.), l’alveo metallaro.

Il verbalismo si fa gioco strenuo in talune circostanze bizantine, come l’attacco del capitolo “Silenzio!” che secondo una tradizione inveterata si scioglie in una melodia sonora sibilata (come nella canzone di John Harle). Ma la scatola è più raffinata: si susseguono 45 parole contenenti la sibilante, al centro (in 23° posizione), la parola “consolatorio” attribuita al “gesto” della sigaretta-pseudorimedio. “Silenzio” ricorre 9 volte, numero sacro e divino; “sigaretta” (anche al plurale) compare 7 volte, numero apocalittico. “Stanza vuota. Stomaco pure”, parole con le quali il passo inizia, gioca sul valore sinestetico del vuoto “fisico-corporeo” (anoressia) e del vuoto “fisico-spaziale” (solitudine; parola di clausola) su cui la sigaretta prova ad insinuarsi, senza rompere l’assordante silenzio ma anzi amplificandolo: la “stampella” è “fallace”, anzi è “sicario”, è racchiuso qui in prolessi il finale del romanzo e viene descritto con dolorosa consapevolezza l’horror vacui (medievalissimo) dell’Autore che per questo si sfonda i timpani con la musica (p. 55; ed infatti non sa tenere un tono di voce normale, anche nella realtà extra-letteraria).

Lo strumentario c’era tutto, si è sviluppato, si è raffinato. La paranoia, negli anni, si è incistata, ed il corredo delle note è aumentato, mentre ne “La Merca” sono solo 23, molto asciutte. Ma il sound di fondo c’era già tutto, a volte in nuce, a volte all’opposto più estesamente espresso di quanto invece non sia, nelle opere successive, condensato in versicoli o frasi enigmatiche: valga a modello la (sprecata) lezione di vita (sprecata) di pp. 21-24.

La componente pornografica, che esploderà nell’opera in versi, ha già ne “La Merca” ben precisi canali: il seduttore-approfittatore, il sesso orale[6], la violenza subita. Anoressia del sesso, anche: il cibo entra per uscirne rigettato, così come lo sperma (p. 40) schizzato in realtà non riempie, ma svuota, e colando porta con sé linfa sana: ossimoro, glifo scelto come insegna.

Cosa dunque sta tra “La Merca” e l’opera susseguente? Sta un’evoluzione di volumi, sia librari che alcoolici. Ci sta una serie di sigarette che dal “mozzicone” con cui si Jenny si manifesta (p. 13), di sigaretta in sigaretta (p. 14), va all’ultima (p. 116) per morire come Jenny e rinascere (“Virus71”, “Lupus Metallorum”) come Dama. La risorgenza che non è ruminazione, ma itinerario su scalini di metallo attraverso regni danteschi, paradisi baudeleriani, pipelines colme di Beck’s, e qualche centinaio di succhiamenti.

Un invito alla lettura deve attingere, trapanare in alcuni punti come un saggio [geognostico] con la carotatrice, e quindi queste linee qui si troncano. Non prima di evidenziare che il tema Dainiano principale, l’Amore, era anche il cuore de “La Merca”, presentato nella iperclassica endiadi “amore-e-morte” (la morte come “puttana fedele” che si concede a tutti è emblematica in tal senso, p. 89) e siglata dalla citazione di Novalis (p. 109) che fa da assist narrativo alla conclusione, che deve più di un debito al “Testamento di Tito” di Fabrizio De André.

Debbo alla grande confidenza di una serata irripetibile (come avrebbe pensato Eraclito), infine, la comprensione del “perdonato tutti” di p.120. Ma questa, scusate, il commentatore la porta con sé.


[1] “Giovane Giovenca, Jenny si sentiva una mucca: nutrita, munta, montata e smontata…” dove si assiste 1) a quello che sarà un classico dainese, ovvero la consonantizzazione accentuata della quasi mugiens littera (Quint. Inst. 12,10,31) qui imperniata proprio sulla mucca, 2) al richiamo mitologico ad Io mutata in giovenca e posseduta da Zeus, 3) alla triplicazione del suono “g” in giov/giov/j , 4)  al richiamo pornografico montata-smontata (cfr. anche “mento munto” p. 76).

[2] Il colore degli occhi (p. 16; p. 25), la birra preferita (p. 25), le coloriture della chioma (p. 71), il Pampero a golate (p. 81) e poi l’analisi, il rapporto con gli uomini e con la sessualità, la stilistica ardita….e l’imperniarsi sull’io (p. 39; ma ancor meglio “io/delir-io/tripud-io” a p. 38).

[3] E.g. “…logorroico…logorata…lontana” (p. 24); “pose…sposa…posata” (p. 18); “ostinata…ostile…ostensorio / istinti” (p. 28); “ballare…sballarsi” (p. 60); “musicata…musa” (p. 61), “ego egoista egocentrica egotista” (ivi), “stratagemma…stratega…strega” p. 93).

[4] E.g. il maiuscolo Si di “alzarSi” a p. 13 cui ribatte in enjembement il “No” di replica; l’esclusione dell’interpunzione in “miglio verde bile” (p. 17) che permette l’allusione al romanzo di Stephen King (1996) diffuso nella versione filmica con John Coffey (1999); “Argentino e tanto” in primo rigo, dove la “atmosfera prensile” del sogno interrotto è quella di un sogno erotico con un bel sudamericano – ma al contempo si crea un gioco consonantico tra “tanto” e “tango” sotteso per richiamo logico a “argentino”.

[5] “…modelle pronte alla sfilata, bestie pronte alla parata” dove oltre all’isocolia stanno il richiamo alla pratica della “merca” ed il gioco etimologico tra pronto/paratus/parata.

[6] “…superava gli esami del sangue con brillanti esami orali…” (p. 26); ma già a p. 25, e poi p. 47 e l’efficace “birra e sborra” di p. 51 e, ivi, “dopo aver ingoiato la sua coscienza cum il suo piacere” ripreso (appunto) nel latino cum gula di p. 66; p. 62.

 

UNA PERSONAGGIA DI SÉ [Lucetta Frisa per l’Eretista]

Chiara Daino (Genova, 1981) ha scritto diversi libri, tra cui un originale volume di poesia Virus 71 (Aìsara, 2010). Virus 71, nella popolare “smorfia” napoletana, rappresenta l’ommo e’ merda. Il titolo, ovviamente, non è casuale. Il libro si compone di una serie di poesie, più o meno brevi, dedicate a uomini da lei incontrati, ed è un attacco violentissimo alla deludente genìa maschile; poesia che Marco Ercolani ha definito “senza pause, acustica, agitata, guerriera, anti-lirica, che rifiuta le anestetiche bellezze formali e i deboli biografismi quotidiani ma esige la maniacale forsennatezza della sua maschera”.
Il discorso indiretto di Chiara sulla maschera propria e altrui, come personaggia di sé, prosegue nel romanzo intitolato l’Eretista (Sigismundus, 2011) – neologismo derivato da eretismo, termine che se, per analogia, evoca eresia e erezione, letteralmente significa sovraeccitazione psichica e cardiaca e “orripilazione” della pelle, la classica pelle d’oca che proviamo nei giorni di gelo o in stati di shock.
Il tema dello shock (poetico e narrativo), nella scrittura della Daino, ci fa interrogare sul concetto generale di Maschera.
La parola volto proviene dal latino visus, visto. Il volto è quanto di noi vedono gli altri: è un termine passivo, un participio passato, dato che non vediamo il nostro volto se non con l’ausilio di uno specchio, che comunque ci rimanda la nostra immagine rovesciata. È la parte frontale del nostro corpo, la più alta. Per non farci vedere come siamo in realtà, col nostro viso nudo e inerme, chiediamo alla maschera che ci trasformi in quello che decidiamo di sembrare: in ultima analisi è il medium usato per mostrarci agli altri, per comunicare. È la protesi del volto che diventa monstrum (sostantivo del verbo mostrare) quando, all’osservatore, risulta sconvolgente, orrenda, aliena – comunque incomprensibile. Se appare mostruosa è perché paradossalmente, esibisce, invece di nascondere, il lato oscuro, interno, di chi la indossa. Le sue funzioni sono ambivalenti, apparentemente contraddittorie. Chi la indossa lo fa per adeguarsi allo sguardo comune oppure per sfuggire ad esso? Il volto-monstrum è inoltre legato al rovescio; è “voltato”, rovesciato, e appunto per questo assume lineamenti “altri”, testimoni di un mistero infero, diabolico (da diaballein – dividere). È la notte, in quanto rovescio del visibile, di-viso dal giorno. Ma il giorno, il visibile, lo colleghiamo al sociale, ai codici comportamentali di una comunità. La maschera-diaframma tra noi e il mondo, tra noi e l’altro, ci protegge dall’indiscrezione, ma offre un’immagine “falsa”, quella di un altro viso sovrapposto a quello vero, e da noi volutamente scelto con un artificio razionale. Il volto mostrato, la maschera, è monstrum, mentre l’ io interno, profondo, resta invisibile. Ma la maschera conserva un mistero, perché anche l’altro non può indovinare cosa si nasconda esattamente dietro… Chi non indossa una maschera è un ingenuo esposto a ogni ferita, un presuntuoso che crede di essere forte e capace, malgrado la sua disarmata nudità, di opporsi al mondo? o semplicemente è un ribelle, un provocatore? In ogni caso paga sempre cara la sua scelta, consapevole o no.

Chi mostra un viso senza maschera è il neonato, il bambino, l’adolescente (ma è anche quello primitivo, dell’animale da cui direttamente proveniamo.) Ecco, in questo crocevia della propria esistenza l’adolescente affronta il problema della scelta. Quale maschera indosserà? Tante identità potenziali si agitano dentro di lui, lo tentano. Ma nessuna di queste lo esprime interamente, lo appaga, lo rispecchia nella sua complessità. Questa ricerca dell’identità può durare anche tutta la vita. Il ricercatore non si rassegna a indossarne solo una. Fermandosi a una sola potrebbe banalizzarsi, invecchiare, pietrificare, e quindi morire. Poi succede, sempre più spesso, che la maschera, se usata troppo a lungo, logori, divori il volto: se prima era facile distinguere tra volto e maschera, a forza di esercitare i suoi artifici la maschera si è confusa pirandellianamente con il volto, che l’ha assorbita come una seconda pelle. Di questo progressivo inglobamento si è sempre meno consapevoli. Si comincia a indossare la maschera, per sopravvivere, come un cappotto, una coperta, quando fa freddo. Anche noi vogliamo partecipare a questo gran ballo mascherato che è l’esistenza sociale. Questo gioco di maschere inizia nell’adolescenza, e spesso è lì che la maschera, se indossata per troppo tempo, comincia lentamente a mangiarsi il volto e a pietrificarlo in quell’età.
Tanto vale riderci su. Mascherarsi è come un trattenere una risata sul viso. Ma a questo punto, se ridiamo di noi stessi e del mondo e dell’assurdità della vita in sé, se siamo quindi consapevoli della Commedia umana, il riso non sarà che una smorfia, riso che nasconde una ferita, dato che il volto-maschera sottende una caduta all’inferno, un voltarsi verso la parte buia di noi – la più inconscia o forse solo negata e rimossa: indica una dolorosa presa di coscienza della morte.

La domanda è questa: «È per difendermi da voi, per farmi accettare socialmente, adeguarmi, scendendo a patti con voi, che indosso una maschera simile alla vostra? Oppure, al contrario, la indosso con un intento opposto: irridervi e ingannarvi, mostrarvi non come sono realmente ma come un altro da me, inconoscibile creatura che si protegge dalla vostre regole e dalla vostra aggressività? Sono io che non mi accetto attraverso il vostro sguardo censorio o più semplicemente entrambe le cose?».

Il Joker di Batman si maschera perché è sfigurato, la sua maschera porta le tracce della ferita sottostante e l’insieme è un ibrido tra una smorfia ghignante, sbeffeggiante, “mostruosa”. Joker è un clown grottesco, ma il grottesco è un ibrido tra tragedia e dramma e, in ultima analisi, commedia ironica, sarcastica, smorfia che per captatio benevolentiae vuole farvi ridere mentre, se adesso ride, significa che ha pianto prima. Cos’è il clown, il buffone di corte, se non una figura forte e fragile allo stesso tempo, il cui ruolo è far ridere gli altri per proteggere la sua vita? Cos’è una figlia che, per farsi amare da un genitore egoista e indifferente, si tramuta in saltimbanco, indossa una maschera aggressiva per opporvisi ma anche per piacergli, dominarlo, distinguere la sua identità dalla sua, recitando tutti i ruoli nella commedia della vita e vivendo sopra le righe? È attrice, quindi una maschera: può saltare da un ruolo all’altro, lei che è personaggio e personaggia ben prima di interpretare quelli imposti da un qualsiasi copione. E’ attrice che urla e non conosce mezzi toni, è scrittrice che scrive “sopra le righe”. Chi non mantiene il rigo – dicono in grafologia – è una persona che può perdere equilibrio o il buon senso, che oscilla tra diverse configurazioni di sé.

Di donne così intelligentemente mascherate ne conosco poche. Giovani che nel grande gioco delle maschere, si scelgono la propria, indipendente, per individualizzarsi con forza, coscienti della propria ironia provocatrice, sincera e falsa allo stesso tempo. La vita è l’arte – chi lo diceva? Chi si strappava, senza ripensamenti, la maschera di ogni metafora? Vivere la vita con arte ecc.. Qualche snob intellettuale dei secoli scorsi? Oscar Wilde, Lord Byron o chi altro? E adesso, chi e che cosa, tra i giovani, la maschera intende provocare con abusi ormai abusati di sesso, alcool, droga?

Per distinguersi da quel mondo giovanile ormai remoto, dopo averne vissuto in parte l’esperienza identificandosi con la propria problematicità ed essersene distaccata con uno sguardo impietoso, Chiara Daino esprime con ardore prepotente il suo bisogno di innocenza, il suo essere bambina corrotta/incorrotta dentro una società imbecille e devastata dal virus della mediocrità, contestando con lo scandalo dell’arte i modelli genitoriali. Come animale feticcio non potrà non scegliere il mitico ermellino, simbolo di assoluto candore e di resistenza alla corruzione, e che nell’antico, classico dipinto di Leonardo è in braccio a una giovane e sorridente dama.
La giovane Dama del celebre quadro è, per Daino, la sua Maschera metaforica e provocatoria, dato che la maschera non è soltanto quella di metallara o post metallara dark, la cui divisa generazionale sfoggia stivaloni, tatuaggi, borchie e metalli di ogni tipo, il tutto rigorosamente nero.
Se molte donne recitano una parte inconsapevolmente, Chiara no. Dama Daino no. Lei ha conquistato una lucidità estrema, filtrata dal dolore come lo è l’ironia che esercita sugli altri e sugli uomini, potente e urticante. Questa ironia diventa una cosmica autoironia, e il mito dell’ermellino è così esemplare da farlo parlare in prima persona proprio nella prima pagina de l’Eretista.
In questo libro ci sono tutte le sue maschere, le maschere degli altri e poi le maschere della letteratura, i giochi a nascondino, tragici e comici, sapendo che il comico nasce dal tragico e il grottesco da tutti e due, solo che è una forma più dilatata, un marcato espressionismo, un incrocio tra Edward Munch e Alice Cooper.
Nodo di voci concitate, di situazioni e maschere complesse, una riflessa nell’altra, l’una eco dell’altra, l’Eretista è maschera e volto insieme, stato condiviso di ebbrezza, “nodo avviluppato” di memoria rossiniana (Rossini è musicista molto amato dalla Dama che, come lui, sa padroneggiare perfettamente la struttura dello spartito fingendo di perdersi nei dettagli). Ma anche questo è un inganno: in questo libro dalla struttura ossessivamente vigilata, lei sempre si specchia nel solo specchio in cui può specchiarsi, padrona delle proprie emozioni e cioè del proprio Gioco che, da sola, sa, narcisisticamente, giocare. Ma ciò che forse colpisce di più, in una scrittura della sua generazione, è la maestria dello scrivere, non c’è nulla di sciatto o di approssimativo, anzi, forse qualche debordamento stilistico in più: così come era perfetto il verso sapiente di Virus 71, così lo è la scrittura narrativa. Sul piano formale Daino è inattaccabile, dà a tutti noi una lezione di lingua italiana, di qualità alta.
Per poter scrivere questo libro la Dama non ha vissuto di riporto, si è identificata nella cultura metal e post metal, ma poi se ne è disidentificata. Tra le varie modalità per realizzare questo stato di libertà e di non appartenenza , questo strapparsi i legami di qualsiasi tipo di dosso, l’invettiva alla Thomas Bernhard, il suo martellare convulso e lo sberleffo, sono i mezzi tra i più efficaci e divertenti. Non è che un modo di fuggire da tutto e tutti, una fuga continua e disperata en avant da ogni identità, da ogni appartenenza a qualcuno o a qualcosa. Daino perenne adolescente con la paura della morte, paura di fermarsi e quindi di banalizzarsi, accumulando via via tanta energia e tanta rabbia e tanto dolore e tanta gioia di vivere, indissolubile compagna della paura di morire. Chi non vuole voltarsi indietro e fugge da sé e dagli altri non conserva in sé il mito vivificante e straziante della perpetua giovinezza ? Ma gli è concesso di farlo solo quando giovane non è più, o almeno non è più così giovane, avendo già vissuto molte esperienze e molte vite. Personaggio (lo uso come parola “neutra” che racchiude in sé tanto il maschile quanto il femminile), la Daino, che dalla sua, ha la scintilla luciferina della genialità.
Il mio personale augurio è quello di non togliersi mai questa maschera e riuscire a restare personaggia per sempre.

Lucetta Frisa, Genova, 2011

MASTER DESIRE & LADY LIBIDO

 http://www.chiaradaino.it/novita.asp#37

Lunedì 21 giugno 2010, ore 19.00
@ BLAm, via Ronzoni 2, Milano
MASTER DESIRE & LADY LIBIDO
NUOVA LETTERATURA FANTASY, Edizioni Eumeswil
di Giovanni Agnoloni
VIRUS 71
, Edizioni Aìsara
di Chiara Daino
presenta la serata:
Franz Krauspenhaar

Mercoledì 23 giugno 2010, ore 18.15
@ Joshua Tree, via della Scala 37 r, Firenze
MASTER DESIRE & LADY LIBIDO part II
 

 Vieni con me.

 

Con chi ti chiama per esteso. Vengo da te per distendere bene – per allargare: spalanca i sensi. E lasciati agire. Io sono la parola carnale, il corpo del testo, la fuori fuoco: la luce mossa per prillare il gergo Gavroche [non vista, silvestre la rabbia: vettore di volpe].

Vieni per me sulla pelle che vesto con cura: ho un’anima di carta. E latina. Riesci a svolgermi? Vieni da me: perché? Che carapace canti? Hai nuovi petali per i miei passi? Di menda ti manti? Nuova nebbia dipani? In questa tenda sono passati [e molti] li vedi? Sono appesi alle persiane: la cornice non mi chiude. È la mia natura: non si possiede, si rispetta. O rovina.

Io voglio solo colorare. Hai pronomi pastello? Vivo da Vanessa Vulcano. Esplode l’effetto farfalla?  Io chiamo un’altra lingua. E allora guardami: che specchio spoglio? Quale schianto rifletto? Ho rotto il margine: ti piace l’intarsio a chiave? La doppia mappa, a metà misura? Sensuale e congenita, cristallo che si caglia, una valigia di tango e seta. E lo so, lo so che non mi segui…

Sono labellum di siero, apifera dello Zingaro[1], un chicco crema la mia cuna. Sdrucciolo: snodo brina bollente. Mi spiego? Tu ti limiti – a dire: «sembra finto» [se vedi il vero], «sembra vero» [se fissi il finto]. Chi imita chi? Dimmi, Burattino, che fine ha fatto: la tua coppia di carbone? Mastro Ciliegia vanta: stivali di serpente. E truciola turchini…  

Oggi mi è sorto un boccolo: acconcio i miei capelli in un esametro. Doppio e fuori misura: fiori di zucca e sfioro lo zaffo, incollo il bouquet per punto pigmeo. Una brocca bambina, capiente concavo. Duro, se vieni: offri da bere. E me lo godo: chiaro e pestato. Salsa che suggo, che strazio. Scendi in pasto: una sola beccata – e ti mangio. Sei ancora qui? Un altro tu – oppure l’esso di prima? Regina di crani cala un due [si picca e non si pecca]. Risparmia fiato, tempo, fatica: come puoi raschiare il mare? Una goccia a bottone? Hai nastro senza voce, sei solo rotto refe – non puoi: non scuoti i soli. Non la sonora spera – indori. Dei quattro sono la Carestia. È allarme. Una sirena, mi dici? Non pericoli, non ascolti. Si vive in maschera, ma si morde nudi. Li vedi i segni? Io li ho attraversati. Globuli e talami. E tu? Leva le fasce – non reclamare: è tutto tuo il piacere. E poi? Ti taglio la coda. Ti lascio la corda: ti gonfi, Gallus Sina, sine flexione. Banale bruco di fango e feci [non hai mai violato: la mia crisalide]. E ti alletta e ti allerta: ellera felice non è facile da fucinare. 

Questo buio è misto: è dentro. Non tu o come te  a spegnere il mio croco: sono tutta sezione sottile. Prisma polare. Il mio verbo copula, il tuo? Ogni tanto paupula…

Zigare di coniglio Amami Oshima, se si zinna è bàlia, se s’impenna: è Zaìra. Colei che sia e tu non vuoi volerla [non sai sedurla]. Non sai entrambe, né le reazioni. La chimica gitana la insegna la rosa di Fatima.

Non si schiuma senza l’acqua, non si scova il cardine del cosmo, se coli bronzo: rivedi la piramide. O lasciami: nella ruga di un perché. La risposta è semplice: poni troppe domande. E la vita si afferma solo con la vita. E si prenota nel punto del come coito.

Io non rimando: io sento. È vero: è l’arco. E non sono l’ablatore [per la bocca che hai smesso di nettàre]: io sono l’esclusiva – e non recito composta [e ti ribalta e ti rivolta]. Le tue non gesta.

Vuoi vedermi venire? All’Asta? Galleria dell’orrido? Tu turpe, cava carnefice, togli gli aculei, i tuoi gammari[2] gangheri – dalla mia gràmma grata: imprimi di bava la mia veste grafica! E non consumi, e non impari: la bellezza dell’atto puro. Quello che.

 

 

Tutto quello che.

 


[1] L’Ophrys apifera [fioritura: marzo – giugno] è una pianta [selvatica] appartenente alla famiglia delle Orchidaceae, ospitata dalla Riserva naturale orientata dello Zingaro. Labellum, labello è una parte del fiore delle Orchidee

[2] Gammari: il gammaro è un crostaceo anfipodo [pulce di mare]. Si nutre di piante in decomposizione e costituisce l’alimento principale di molti pesci [N.d.A.]