LA MERCA: SOUL BRANDING

INVITO ALLA MERCA-TURA, LA LETTERATURA DELLA MERCA
di JACOPO RICCARDI

 

 

À rebours, ma anche in profondità. Leggere l’opera primeva di Daino in chiave retrospettiva, al termine della lettura dell’opera tutta sua edita, consente di seguire nei due sensi di marcia un itinerario, attraverso i più rilevanti marca-sentiero.

La debita premessa è la ristampa, fortemente voluta bottom-up (perché comunque ci vuole anche culo) de “La Merca” da parte di Fara editore (20061; agosto 20122). Cinque anni prima de “l’Eretista”, testo di mole e di articolazione maggiore, Daino [e]ruttava un volumetto snello, dal titolo pregnante, “La Merca”, appunto.

In epigrafe sta scritto “Voi sapete cos’è la merca? È un marchio”. L’asciuttezza definitoria è solo un indirizzo superficiale al lettore, uno sprone ad affrontare le parole come un rompicapo ligneo. La “merca” è il marchio con cui sono segnati a fuoco i capi di bestiame. Un segno di proprietà, uno sfregio, un tatuaggio limitativo, un atto di forza che l’animale subisce. Gabriele D’Annunzio (Forse che sì forse che no) rendeva con animo bruzzio la violenza sottesavi: “la prodezza del buttero nel giorno della merca? La bestia legata e sollevata e marchiata per la servitù”. La merca è uno stupro, che ti segna. La merca ti fa prodotto, ti fa merce. Sei sul mercato, il mercato delle vacche[1]. Merca, attraverso merce/mercato/mercare (verbo che appare anche in Dante) ti proietta al mercimonio. Perché il cuore del romanzo di Daino è la reificazione. Il percorso 2006-2012 della Dama è ricco di evoluzioni, ma è fedele a questo tema, che ha radici autobiografiche inevitabilmente più evidenti in un’opera prima[2].

Il segno dell’alcool, delle sigarette fumate in una catena consapevole di autodistruzione, l’anoressia (campo ovvero tema sul quale la letteratura scorrazza fin troppo liberamente) sono tutti marchi (merche) di Jenny (il cui nome è, ci svela l’Autore in una sorta di sigla di coda, di postfazione, di commiato, un riferimento a Jenny è pazza di Vasco Rossi).

La parola d’esordio è un esclamato “merda”. Non è scatologia, ma escatologia, perché le cose ultime e le cose prime si toccano. Merca/Merda fa scaturire il bisticcio su c/d, che al contempo è il cd musicale (la musica di Vasco, il Metal, colonne sonore) ed è la sigla dell’Autore, la sfraghìs.

Compaiono nella merca i ludi verbali (omografie ed omofonie[3], omoteleuti, rime al mezzo, schizzi enigmistici[4], feticismo etimologico[5]…), riferimenti ad un orizzonte culturale classico specifico (l’interpretazione colliana dell’arco di Apollo, bioV/bios come “arco” e come “violenza” – Apollo l’obliquo – p. 14; il trittico “il fisico, il mondo, la perfezione” p. 19 traducibile in “physis – mundus – kosmos”, i molteplici cammei letterari (Shakespeare, Melville, la Alcott…), musicali (la Caselli, Samuele Bersani, Vasco, Palconudo, Simon & Garfunkel, ecc.), l’alveo metallaro.

Il verbalismo si fa gioco strenuo in talune circostanze bizantine, come l’attacco del capitolo “Silenzio!” che secondo una tradizione inveterata si scioglie in una melodia sonora sibilata (come nella canzone di John Harle). Ma la scatola è più raffinata: si susseguono 45 parole contenenti la sibilante, al centro (in 23° posizione), la parola “consolatorio” attribuita al “gesto” della sigaretta-pseudorimedio. “Silenzio” ricorre 9 volte, numero sacro e divino; “sigaretta” (anche al plurale) compare 7 volte, numero apocalittico. “Stanza vuota. Stomaco pure”, parole con le quali il passo inizia, gioca sul valore sinestetico del vuoto “fisico-corporeo” (anoressia) e del vuoto “fisico-spaziale” (solitudine; parola di clausola) su cui la sigaretta prova ad insinuarsi, senza rompere l’assordante silenzio ma anzi amplificandolo: la “stampella” è “fallace”, anzi è “sicario”, è racchiuso qui in prolessi il finale del romanzo e viene descritto con dolorosa consapevolezza l’horror vacui (medievalissimo) dell’Autore che per questo si sfonda i timpani con la musica (p. 55; ed infatti non sa tenere un tono di voce normale, anche nella realtà extra-letteraria).

Lo strumentario c’era tutto, si è sviluppato, si è raffinato. La paranoia, negli anni, si è incistata, ed il corredo delle note è aumentato, mentre ne “La Merca” sono solo 23, molto asciutte. Ma il sound di fondo c’era già tutto, a volte in nuce, a volte all’opposto più estesamente espresso di quanto invece non sia, nelle opere successive, condensato in versicoli o frasi enigmatiche: valga a modello la (sprecata) lezione di vita (sprecata) di pp. 21-24.

La componente pornografica, che esploderà nell’opera in versi, ha già ne “La Merca” ben precisi canali: il seduttore-approfittatore, il sesso orale[6], la violenza subita. Anoressia del sesso, anche: il cibo entra per uscirne rigettato, così come lo sperma (p. 40) schizzato in realtà non riempie, ma svuota, e colando porta con sé linfa sana: ossimoro, glifo scelto come insegna.

Cosa dunque sta tra “La Merca” e l’opera susseguente? Sta un’evoluzione di volumi, sia librari che alcoolici. Ci sta una serie di sigarette che dal “mozzicone” con cui si Jenny si manifesta (p. 13), di sigaretta in sigaretta (p. 14), va all’ultima (p. 116) per morire come Jenny e rinascere (“Virus71”, “Lupus Metallorum”) come Dama. La risorgenza che non è ruminazione, ma itinerario su scalini di metallo attraverso regni danteschi, paradisi baudeleriani, pipelines colme di Beck’s, e qualche centinaio di succhiamenti.

Un invito alla lettura deve attingere, trapanare in alcuni punti come un saggio [geognostico] con la carotatrice, e quindi queste linee qui si troncano. Non prima di evidenziare che il tema Dainiano principale, l’Amore, era anche il cuore de “La Merca”, presentato nella iperclassica endiadi “amore-e-morte” (la morte come “puttana fedele” che si concede a tutti è emblematica in tal senso, p. 89) e siglata dalla citazione di Novalis (p. 109) che fa da assist narrativo alla conclusione, che deve più di un debito al “Testamento di Tito” di Fabrizio De André.

Debbo alla grande confidenza di una serata irripetibile (come avrebbe pensato Eraclito), infine, la comprensione del “perdonato tutti” di p.120. Ma questa, scusate, il commentatore la porta con sé.


[1] “Giovane Giovenca, Jenny si sentiva una mucca: nutrita, munta, montata e smontata…” dove si assiste 1) a quello che sarà un classico dainese, ovvero la consonantizzazione accentuata della quasi mugiens littera (Quint. Inst. 12,10,31) qui imperniata proprio sulla mucca, 2) al richiamo mitologico ad Io mutata in giovenca e posseduta da Zeus, 3) alla triplicazione del suono “g” in giov/giov/j , 4)  al richiamo pornografico montata-smontata (cfr. anche “mento munto” p. 76).

[2] Il colore degli occhi (p. 16; p. 25), la birra preferita (p. 25), le coloriture della chioma (p. 71), il Pampero a golate (p. 81) e poi l’analisi, il rapporto con gli uomini e con la sessualità, la stilistica ardita….e l’imperniarsi sull’io (p. 39; ma ancor meglio “io/delir-io/tripud-io” a p. 38).

[3] E.g. “…logorroico…logorata…lontana” (p. 24); “pose…sposa…posata” (p. 18); “ostinata…ostile…ostensorio / istinti” (p. 28); “ballare…sballarsi” (p. 60); “musicata…musa” (p. 61), “ego egoista egocentrica egotista” (ivi), “stratagemma…stratega…strega” p. 93).

[4] E.g. il maiuscolo Si di “alzarSi” a p. 13 cui ribatte in enjembement il “No” di replica; l’esclusione dell’interpunzione in “miglio verde bile” (p. 17) che permette l’allusione al romanzo di Stephen King (1996) diffuso nella versione filmica con John Coffey (1999); “Argentino e tanto” in primo rigo, dove la “atmosfera prensile” del sogno interrotto è quella di un sogno erotico con un bel sudamericano – ma al contempo si crea un gioco consonantico tra “tanto” e “tango” sotteso per richiamo logico a “argentino”.

[5] “…modelle pronte alla sfilata, bestie pronte alla parata” dove oltre all’isocolia stanno il richiamo alla pratica della “merca” ed il gioco etimologico tra pronto/paratus/parata.

[6] “…superava gli esami del sangue con brillanti esami orali…” (p. 26); ma già a p. 25, e poi p. 47 e l’efficace “birra e sborra” di p. 51 e, ivi, “dopo aver ingoiato la sua coscienza cum il suo piacere” ripreso (appunto) nel latino cum gula di p. 66; p. 62.

 

UNA PERSONAGGIA DI SÉ [Lucetta Frisa per l’Eretista]

Chiara Daino (Genova, 1981) ha scritto diversi libri, tra cui un originale volume di poesia Virus 71 (Aìsara, 2010). Virus 71, nella popolare “smorfia” napoletana, rappresenta l’ommo e’ merda. Il titolo, ovviamente, non è casuale. Il libro si compone di una serie di poesie, più o meno brevi, dedicate a uomini da lei incontrati, ed è un attacco violentissimo alla deludente genìa maschile; poesia che Marco Ercolani ha definito “senza pause, acustica, agitata, guerriera, anti-lirica, che rifiuta le anestetiche bellezze formali e i deboli biografismi quotidiani ma esige la maniacale forsennatezza della sua maschera”.
Il discorso indiretto di Chiara sulla maschera propria e altrui, come personaggia di sé, prosegue nel romanzo intitolato l’Eretista (Sigismundus, 2011) – neologismo derivato da eretismo, termine che se, per analogia, evoca eresia e erezione, letteralmente significa sovraeccitazione psichica e cardiaca e “orripilazione” della pelle, la classica pelle d’oca che proviamo nei giorni di gelo o in stati di shock.
Il tema dello shock (poetico e narrativo), nella scrittura della Daino, ci fa interrogare sul concetto generale di Maschera.
La parola volto proviene dal latino visus, visto. Il volto è quanto di noi vedono gli altri: è un termine passivo, un participio passato, dato che non vediamo il nostro volto se non con l’ausilio di uno specchio, che comunque ci rimanda la nostra immagine rovesciata. È la parte frontale del nostro corpo, la più alta. Per non farci vedere come siamo in realtà, col nostro viso nudo e inerme, chiediamo alla maschera che ci trasformi in quello che decidiamo di sembrare: in ultima analisi è il medium usato per mostrarci agli altri, per comunicare. È la protesi del volto che diventa monstrum (sostantivo del verbo mostrare) quando, all’osservatore, risulta sconvolgente, orrenda, aliena – comunque incomprensibile. Se appare mostruosa è perché paradossalmente, esibisce, invece di nascondere, il lato oscuro, interno, di chi la indossa. Le sue funzioni sono ambivalenti, apparentemente contraddittorie. Chi la indossa lo fa per adeguarsi allo sguardo comune oppure per sfuggire ad esso? Il volto-monstrum è inoltre legato al rovescio; è “voltato”, rovesciato, e appunto per questo assume lineamenti “altri”, testimoni di un mistero infero, diabolico (da diaballein – dividere). È la notte, in quanto rovescio del visibile, di-viso dal giorno. Ma il giorno, il visibile, lo colleghiamo al sociale, ai codici comportamentali di una comunità. La maschera-diaframma tra noi e il mondo, tra noi e l’altro, ci protegge dall’indiscrezione, ma offre un’immagine “falsa”, quella di un altro viso sovrapposto a quello vero, e da noi volutamente scelto con un artificio razionale. Il volto mostrato, la maschera, è monstrum, mentre l’ io interno, profondo, resta invisibile. Ma la maschera conserva un mistero, perché anche l’altro non può indovinare cosa si nasconda esattamente dietro… Chi non indossa una maschera è un ingenuo esposto a ogni ferita, un presuntuoso che crede di essere forte e capace, malgrado la sua disarmata nudità, di opporsi al mondo? o semplicemente è un ribelle, un provocatore? In ogni caso paga sempre cara la sua scelta, consapevole o no.

Chi mostra un viso senza maschera è il neonato, il bambino, l’adolescente (ma è anche quello primitivo, dell’animale da cui direttamente proveniamo.) Ecco, in questo crocevia della propria esistenza l’adolescente affronta il problema della scelta. Quale maschera indosserà? Tante identità potenziali si agitano dentro di lui, lo tentano. Ma nessuna di queste lo esprime interamente, lo appaga, lo rispecchia nella sua complessità. Questa ricerca dell’identità può durare anche tutta la vita. Il ricercatore non si rassegna a indossarne solo una. Fermandosi a una sola potrebbe banalizzarsi, invecchiare, pietrificare, e quindi morire. Poi succede, sempre più spesso, che la maschera, se usata troppo a lungo, logori, divori il volto: se prima era facile distinguere tra volto e maschera, a forza di esercitare i suoi artifici la maschera si è confusa pirandellianamente con il volto, che l’ha assorbita come una seconda pelle. Di questo progressivo inglobamento si è sempre meno consapevoli. Si comincia a indossare la maschera, per sopravvivere, come un cappotto, una coperta, quando fa freddo. Anche noi vogliamo partecipare a questo gran ballo mascherato che è l’esistenza sociale. Questo gioco di maschere inizia nell’adolescenza, e spesso è lì che la maschera, se indossata per troppo tempo, comincia lentamente a mangiarsi il volto e a pietrificarlo in quell’età.
Tanto vale riderci su. Mascherarsi è come un trattenere una risata sul viso. Ma a questo punto, se ridiamo di noi stessi e del mondo e dell’assurdità della vita in sé, se siamo quindi consapevoli della Commedia umana, il riso non sarà che una smorfia, riso che nasconde una ferita, dato che il volto-maschera sottende una caduta all’inferno, un voltarsi verso la parte buia di noi – la più inconscia o forse solo negata e rimossa: indica una dolorosa presa di coscienza della morte.

La domanda è questa: «È per difendermi da voi, per farmi accettare socialmente, adeguarmi, scendendo a patti con voi, che indosso una maschera simile alla vostra? Oppure, al contrario, la indosso con un intento opposto: irridervi e ingannarvi, mostrarvi non come sono realmente ma come un altro da me, inconoscibile creatura che si protegge dalla vostre regole e dalla vostra aggressività? Sono io che non mi accetto attraverso il vostro sguardo censorio o più semplicemente entrambe le cose?».

Il Joker di Batman si maschera perché è sfigurato, la sua maschera porta le tracce della ferita sottostante e l’insieme è un ibrido tra una smorfia ghignante, sbeffeggiante, “mostruosa”. Joker è un clown grottesco, ma il grottesco è un ibrido tra tragedia e dramma e, in ultima analisi, commedia ironica, sarcastica, smorfia che per captatio benevolentiae vuole farvi ridere mentre, se adesso ride, significa che ha pianto prima. Cos’è il clown, il buffone di corte, se non una figura forte e fragile allo stesso tempo, il cui ruolo è far ridere gli altri per proteggere la sua vita? Cos’è una figlia che, per farsi amare da un genitore egoista e indifferente, si tramuta in saltimbanco, indossa una maschera aggressiva per opporvisi ma anche per piacergli, dominarlo, distinguere la sua identità dalla sua, recitando tutti i ruoli nella commedia della vita e vivendo sopra le righe? È attrice, quindi una maschera: può saltare da un ruolo all’altro, lei che è personaggio e personaggia ben prima di interpretare quelli imposti da un qualsiasi copione. E’ attrice che urla e non conosce mezzi toni, è scrittrice che scrive “sopra le righe”. Chi non mantiene il rigo – dicono in grafologia – è una persona che può perdere equilibrio o il buon senso, che oscilla tra diverse configurazioni di sé.

Di donne così intelligentemente mascherate ne conosco poche. Giovani che nel grande gioco delle maschere, si scelgono la propria, indipendente, per individualizzarsi con forza, coscienti della propria ironia provocatrice, sincera e falsa allo stesso tempo. La vita è l’arte – chi lo diceva? Chi si strappava, senza ripensamenti, la maschera di ogni metafora? Vivere la vita con arte ecc.. Qualche snob intellettuale dei secoli scorsi? Oscar Wilde, Lord Byron o chi altro? E adesso, chi e che cosa, tra i giovani, la maschera intende provocare con abusi ormai abusati di sesso, alcool, droga?

Per distinguersi da quel mondo giovanile ormai remoto, dopo averne vissuto in parte l’esperienza identificandosi con la propria problematicità ed essersene distaccata con uno sguardo impietoso, Chiara Daino esprime con ardore prepotente il suo bisogno di innocenza, il suo essere bambina corrotta/incorrotta dentro una società imbecille e devastata dal virus della mediocrità, contestando con lo scandalo dell’arte i modelli genitoriali. Come animale feticcio non potrà non scegliere il mitico ermellino, simbolo di assoluto candore e di resistenza alla corruzione, e che nell’antico, classico dipinto di Leonardo è in braccio a una giovane e sorridente dama.
La giovane Dama del celebre quadro è, per Daino, la sua Maschera metaforica e provocatoria, dato che la maschera non è soltanto quella di metallara o post metallara dark, la cui divisa generazionale sfoggia stivaloni, tatuaggi, borchie e metalli di ogni tipo, il tutto rigorosamente nero.
Se molte donne recitano una parte inconsapevolmente, Chiara no. Dama Daino no. Lei ha conquistato una lucidità estrema, filtrata dal dolore come lo è l’ironia che esercita sugli altri e sugli uomini, potente e urticante. Questa ironia diventa una cosmica autoironia, e il mito dell’ermellino è così esemplare da farlo parlare in prima persona proprio nella prima pagina de l’Eretista.
In questo libro ci sono tutte le sue maschere, le maschere degli altri e poi le maschere della letteratura, i giochi a nascondino, tragici e comici, sapendo che il comico nasce dal tragico e il grottesco da tutti e due, solo che è una forma più dilatata, un marcato espressionismo, un incrocio tra Edward Munch e Alice Cooper.
Nodo di voci concitate, di situazioni e maschere complesse, una riflessa nell’altra, l’una eco dell’altra, l’Eretista è maschera e volto insieme, stato condiviso di ebbrezza, “nodo avviluppato” di memoria rossiniana (Rossini è musicista molto amato dalla Dama che, come lui, sa padroneggiare perfettamente la struttura dello spartito fingendo di perdersi nei dettagli). Ma anche questo è un inganno: in questo libro dalla struttura ossessivamente vigilata, lei sempre si specchia nel solo specchio in cui può specchiarsi, padrona delle proprie emozioni e cioè del proprio Gioco che, da sola, sa, narcisisticamente, giocare. Ma ciò che forse colpisce di più, in una scrittura della sua generazione, è la maestria dello scrivere, non c’è nulla di sciatto o di approssimativo, anzi, forse qualche debordamento stilistico in più: così come era perfetto il verso sapiente di Virus 71, così lo è la scrittura narrativa. Sul piano formale Daino è inattaccabile, dà a tutti noi una lezione di lingua italiana, di qualità alta.
Per poter scrivere questo libro la Dama non ha vissuto di riporto, si è identificata nella cultura metal e post metal, ma poi se ne è disidentificata. Tra le varie modalità per realizzare questo stato di libertà e di non appartenenza , questo strapparsi i legami di qualsiasi tipo di dosso, l’invettiva alla Thomas Bernhard, il suo martellare convulso e lo sberleffo, sono i mezzi tra i più efficaci e divertenti. Non è che un modo di fuggire da tutto e tutti, una fuga continua e disperata en avant da ogni identità, da ogni appartenenza a qualcuno o a qualcosa. Daino perenne adolescente con la paura della morte, paura di fermarsi e quindi di banalizzarsi, accumulando via via tanta energia e tanta rabbia e tanto dolore e tanta gioia di vivere, indissolubile compagna della paura di morire. Chi non vuole voltarsi indietro e fugge da sé e dagli altri non conserva in sé il mito vivificante e straziante della perpetua giovinezza ? Ma gli è concesso di farlo solo quando giovane non è più, o almeno non è più così giovane, avendo già vissuto molte esperienze e molte vite. Personaggio (lo uso come parola “neutra” che racchiude in sé tanto il maschile quanto il femminile), la Daino, che dalla sua, ha la scintilla luciferina della genialità.
Il mio personale augurio è quello di non togliersi mai questa maschera e riuscire a restare personaggia per sempre.

Lucetta Frisa, Genova, 2011

QUELL’ERETISTA DI MARCO ERCOLANI

I LIBRI NON SONO CONFORTI

di Marco Ercolani

Genova, 14 ottobre 2011, presentazione de

l’Eretista (di Chiara Daino, Sigismundus Editrice, 2011)

  OltreConfine Cafè

“Ho una matassa di voci che mi alberga e che mi alloggia”.

Partiamo da questa frase di Chiara.

Il libro è questa matassa di voci che sta al lettore districare. Il libro si chiama l’Eretista (Sigismundus, 2011).

Si definisce come “eretismo” uno stato di agitazione del cuore e della mente. Una sorta di fibrillazione dei tessuti, a cui talvolta partecipa anche la pelle, quando rabbrividisce. Questo è il titolo, il tema, la materia del libro. Titolo quanto mai opportuno e adeguato.

Il suo genere! Non pervenuto. Giallo? Noir? Una pagina precisa chiarirà l’enigma, ma non ve la svelo. Forse è proprio un noir, come è vero che Delitto e castigo è un romanzo poliziesco.

Di cosa parla l’Eretista? Alcuni dei temi: Milla e Nemi, Milla e Isaak, la rivista di cultura Gelb, la duchessa di Bretagna e la caccia all’ermellino, il patto col diavolo di Robert Johnson e la maledizione del 27, il formulario di Fraser e Omero, Monaldo Leopardi e Isa Bluette, il deserto di Tàlora e Tito Schipa Junior, il monologo di Pamela Morrison e il dondolìo dei pinguini. E infine una donna misteriosa, la rockstar Milla, la Beatrice infera che percorre tutto il libro.
L’Eretista è un libro a strati, godibile da un lettore che cerca una trama bizzarra ma anche e soprattutto da artisti e intellettuali che vi troveranno infinite citazioni ed eccitazioni, veri e propri tour de force virtuosistici di scrittura. È un libro che si impregna della lettura di altri libri. Ricordiamo che è nato in pochi mesi, da gennaio a settembre, ed è stato scritto e riscritto diverse volte.

I diversi capitoli sono intonati da io diversi, in luoghi diversi, in modi diversi (diari, carteggi, dialoghi, monologhi, inserti inattuali, da un commento a Omero al monologo dell’ermellino). Tutti concorrono a costruire una polifonia che complica la comprensione (il lettore ha molto da lavorare), ma invita a sprofondare nel tessuto della trama, e soprattutto a perdersi/ritrovarsi nei dettagli, nelle divagazioni.
È un libro erudito, ricchissimo di riferimenti musicali, filosofici, mitologici, letterari. Ma esiste un’erudizione esangue, senile, accademica, e un’erudizione eretistica, che rende la citazione uno stato di eccitazione permanente. È il caso de l’Eretista.

Daino compone un trattato di poetica per maschere. Ritratto di un autore e delle sue maschere. Autobiografia indiretta. Scrittura fosforescente, fitta di dialoghi e invettive. Libro grottesco? Ironico? Serissimo? Tutte e tre le cose, e molte altre. Un esempio di massimalismo barocco, di polifonia, ma non certo un esempio di “scrittura informe”, semmai il contrario.

«Nell’ora di frontiera, in questa striscia di Langa piemontese, una striscia di luce mi racconta del sole ciccione che, proprio adesso, sta mulinando un meraviglioso mezzogiorno. Nell’ora di frontiera, il sole ciccione piroetta alto in alto, in un altro spicchio di cielo. Non è bellissimo? Ho sempre trovato un capolavoro « il sole ciccione »! Una superstar: fiammeggia e tempesta i suoi vortici di grano, dardeggia maculato con la sua corona e non si cura di tutto l’orbitare che lo circonda.
C’è sempre uno scoglio indorato dal sole. E mi consola saperlo: è sempre un giorno nuovo, basta cambiare parallelo. Per questo vivo sempre un giorno nuovo, aspetto sempre un nuovo giorno. Per capriccio del mio ipotalamo rivoltoso, rifiuto ogni orologio circadiano: l’altalena che avvicenda le mie ore di veglia alle mie ore di nanna – è fuori ritmo.
Oh ciccione di un sole, non sei forse tu, abbastanza per me? Obeso di un sole, perché non sei in grado di essermi un « adeguato stimolo esterno »? Adiposo di un sole, perché non vuoi abitarmi come Zeitgeber, come donatore di tempo? Prendimi e lasciami! Non invadermi di continuo: sei peggio di un maschio arrapato e non mi concedi riposo. Tu, lardoso di un sole omertoso! Io lo so che avevi un gemello! L’astronomo rapallino, Pascàl del campo di Luppolo, mi ha svelato la verità: manca un fuoco. Al principio del tempo, eravate in due. Tu, pingue di un sole, avevi una pingue copia dall’altra parte dell’ellisse. Perché ne hai taciuto la scomparsa? La leggenda del « fuoco mancante » non è una leggenda. Hai insabbiato, rutilante ammasso di vampe scomposte, i raggi di tuo fratello. Non ti vergogni? Volevi essere da solo, oh sole? Tu e quel cornuto di Morfeo siete malati di protagonismo!
Monologo senza tregua…».

Una caratteristica del romanzo: essere una struttura porosa e onnivora, triturare la realtà dell’io e del mondo in un vortice sia linguistico sia di intreccio.

Antecedenti della Daino: difficile trovarli. Forse l’autrice ha dei precedenti ma non degli antecedenti. Mi sono imbattuto, io lettore, in qualcosa che mi ricorda Russia scompigliata di Remizov, Pietroburgo di Belji, i romanzi di Bernhard, le nevrosi di Gadda, il comico di Rabelais, forse anche certa letteratura sudamericana (Bolaño). Sicuramente il cinema di Tarantino e di Almodòvar.

Questo romanzo vive nel campo dell’iperbole barocca, nel regno inafferrabile della poesia. Daino è poeta (leggete l’autobiografico Virus 71 e la comica e potente Metalli Commedia per averne le prove), ma la sua prosa ci sorprende di più per la complicazione, la stratificazione, la fibrillazione dell’intreccio, e per il rigore serrato della scrittura e riscrittura, dal disegno complessivo della trama fino alle sarcastiche note finali. E il ritmo è sempre tenuto alto e forte, proprio per provocare, attirare, toccare il lettore, mettergli le mani nel sangue. Questo romanzo è un fiume limaccioso che trascina con sé sensazioni, impressioni, riflessioni, rigurgiti, invettive, che l’autrice ha vissuto mentre faceva il libro, lavorando quindi non in una fortezza d’avorio ma nel suo antro personale, nella grotta della sua mente, che assomiglia a un porticato aperto, dove entra ed esce di tutto.

I libri non sono strumenti di conforto. Sono mezzi per vivere di più. Daino vive dentro i libri. Scrive ininterrottamente. È pervasa. E ne l’Eretista c’è una fame di vita, di vivente, che nasce da un vuoto che solo la scrittura può colmare, e una voglia irrefrenabile, capricciosa, infantile, di coinvolgere il lettore in un gioco. In un immenso scherzo. Si ride, ne l’Eretista. Basta leggere le note, che non sono smisurate come in Metalli Commedia, ma sono sempre un esempio di virtuosistica, sferzante ironia. Eccone due fra le tante.

« Narciso e bugiardo […] mi assorda l’eco »: l’autore, trattenutosi dallo scrivere Eco maiuscolo, intesse il mito di Narciso e di Eco. Narciso, innamorato della propria immagine, trascorreva le giornate a rimirarsi nello specchio delle acque. Peccato che avesse una relazione con la giovane Eco. Trascurata, Eco si consumava di giorno in giorno. Narciso, inseguendo la sua immagine si gettò nel fiume e schiattò. Eco, consunta, rimase solo una voce, diventando la prima anoressica dell’intero universo. Amen
« Pas »: acronimo di Parental Alienation Syndrome, sindrome di alienazione genitoriale, scatenata nei bambini da situazioni conflittuali di separazione o divorzio».

C’è un accordo profondo fra la trama sfuggente del libro – insieme romanzo noir, trattato di poetica, intrico di maschere, ritratto psichico dell’autrice – e la materia linguistica vorticosa, mai placata, della scrittura. Dovrei chiamarlo romanzo postmoderno, esaminare le analogie con altri strani romanzi come 2066 di Roberto Bolaño e Jest di David Foster Wallace, ma questo romanzo caleidoscopico sfugge alla “noia diffusa!” di questi modelli, assomiglia di più a un blocco esploso in frammenti, e ogni frammento restituisce la suggestione dell’insieme. Non si tratta di un difetto di composizione ma di una precisa volontà compositiva. Un romanzo unitario è oggi impensabile. Qui abbiamo una girandola di fondali diversi e spiazzanti, che formano un cocktail alcolico e beffardo, un giro di vortice sulle “montagne russe” della scrittura, inventano un orgasmo letterario che si realizza sia nella bizzarria dell’immaginazione che nella logica della composizione.
Daino ci presenta un romanzo ad enigma di cui, se è importante scoprire l’enigma, il plot, non è poi così determinante farlo (anche se una pagina lo rivela). In questo romanzo polifonico e frammentario, un’accelerazione febbrile percorre le frasi, un tempo velocissimo (l’azione si svolge in 27 giorni), che l’autore sì, controlla, ma solo in parte, perché vuole rendere quest’aura di fibrillazione che percorre le frasi. Per intenderci: come in un film di Tarantino. Ma anche come in un altro film, Sin city, la graphic novel potente e violenta di Robert Rodriguez, il cui protagonista ha la sagoma, cara a Chiara, di Bruce Willis. Ricordiamo Willis nel tarantiniano Pulp Fiction, un film dove il continuo intersecarsi dei piani temporali ha qualcosa in comune con l’Eretista. Dice Tarantino di sé: «Se non fossi diventato regista, sarei diventato un criminale». Frase che Chiara potrebbe condividere. Con la materia “cinema” il film ha in comune qualcosa di preciso: il nome della protagonista, Milla, trasparente allusione a Milla Jóvovich, protagonista de Il quinto elemento e di Resident Evil.

Questo romanzo è la percezione di un film esagerato, clamoroso, frastornante. Evidente la scrittura colorata, vocale, invettivante, mai pacificata: un vortice “in atto”, preciso opposto di una scrittura lineare e riflessiva. Ecco l’aggettivo lineare va eliminato dal vocabolario della Daino. Lo sostituiamo con complesso? Sì, ma direi anche multiverso opposto a universo.
La logica è solo un modo per essere ignoranti in modo abissale”, dice Terry Prachett, autore di fantasy umoristici amati dalla Daino, dove un Mondo-Disco cammina in groppa a quattro elefanti che si reggono sul corpo della Grande Tartaruga. Che da quelle parti ci siano le remote radici di questo romanzo multiverso, nel senso di universo barocco, plurale?

Ogni romanzo si costruisce su una retorica. La retorica della Daino è l’iperbole. Tutto è sempre sopra le righe. Non tende al silenzio. Noia e lamento sono messi al bando. Esiste, nel libro, una follia ipomaniacale sotterranea. Un atto di accusa contro il mondo, l’atto violento di accusa di un bambino frainteso contro un mondo adulto stupido, limitante, violento.
Ma esiste anche un discorso teatrale della parola. Scaturisce la vocazione al palcoscenico, all’esibizione, di una scrittura ostentata, veemente, di originale intelligenza.
Leggete questo libro, leggetelo ma non cercate di capirlo tutto subito, di arrendervi alla logica di un unico genere, perché sarete spiazzate, circuìti, sbeffeggiati, cercate di farvi afferrare dalla sua non-linearità romanzesca. Come lettori, dovrete lavorare. Il libro è una lama aperta, che vi invita ad avvicinarvi, che vuole ferirvi. Non è innocuo, lo sappiamo: basta conoscere l’autrice. Ma ne sarete ripagati.

«Tu sei sempre stato più bravo di me anche in questo e, da quando mi hai lasciata, mi hai lasciato un buco così profondo nel centro del petto, che non riesco più a colmarlo. Lo vedi che si ritorna sempre al buco? Lo studente che ha due ore di buco all’università, ne approfitta per trovare un nuovo arpeggio; il maschio tradito usa le donne come tappabuco per le sue serate; le mani bucate conducono alla rovina; lo scrittore si dispera per un buco nel romanzo; un attore deve bucare lo schermo…
Per quanto mi riguarda, ho fatto un altro buco nella cintura, sono sempre più magra, ma non conta, non ora che uso la cintura come un laccio emostatico per centrare una stramaledetta vena. Questo è il buco che ho scelto io, ma uno sciamano mi ha detto che il 5 aprile del 1994, un angelo triste si farà un buco in testa con una pistola. Per fortuna non ci sarò più, non potrei sopportare la vista di un altro buco, un buco nero.
Sono già piena di buchi: nelle braccia, nelle mani, tra le dita dei piedi e sotto le unghie. Non voglio altri buchi, buchi nell’acqua e buchi nei vetri, buchi nei vestiti, per i mozziconi di sigaretta che mi spengo addosso quando sono in acido.
Ho anche un buco nello stomaco e, Amore mio, vorrei solo fare un buco nella sabbia, come quando ero una bimba e scavavo una buca grande grande, pensando di raggiungere l’altra parte del mondo. Ora che sono cresciuta, so che i buchi sono pericolosi: i buchi per cercare il petrolio scatenano guerre infinite, il buco nell’ozono, prima o poi, inghiottirà ogni forma di vita e il silenzio che mi hai hai lasciato in eredità, è un buco che non so più come riempire».

Musicalmente dovesse venirmi in mente un autore classico, che la Daino ama molto, citerei un genio dell’ironia, Gioacchino Rossini, e il quartetto da La Cenerentola: “Questo è un nodo rintrecciato. Questo è un nodo avviluppato”. I protagonisti del quartetto, immersi nella trama, cantano e sprofondano nella demenza di non capire. E il virtuosismo acrobatico di Daino è degno del più puro belcantismo. Ma Chiara ama sonorità Rock e Heavy Metal, che sostanziano la pulsazione forsennata de l’Eretista, come le straziate polifonie di Stratos e di Tran Quang Hai, il maestro vietnamita di Stratos.

Daino è Maschera nella sua arte (uso il maiuscolo, Chiara mi capirà). Ci sono maschere che è semplice indossare e maschere che non si separano dalla pelle. Ecco, Daino è Maschera tra l’uno e l’altro modo. Non maschera semplice, che ci si toglie tranquillamente, e neppure maschera che aderisce tanto alla pelle da distruggere il corpo. È maschera relativa ma assoluta, “maschera sospesa”, nel senso che a toglierla ci si scorticano le dita e sanguinano. Chiara è sempre scorticata. Non vi fate beffare dalla sua maschera-per-tutti, aggressiva e Heavy Metal, buona à tout faire. Affondate lo sguardo nella sua scrittura che è ancora Schiaffo al gusto del pubblico, come in qualche appassionata serata futurista.

Spero, con queste parole, di avervi invitato a leggere un libro urticante e preciso, pubblicato con coraggio da Sigismundus Editrice, la cui veste grafica, curata ossessivamente da Chiara, è elegante e luminosa. Non vi conforterà, questo libro, ma vi sveglierà. Ce n’è bisogno. Come dicevo: di libri belli ne troviamo tanti, ma i libri necessari afferriamoli quando capita (raramente) l’occasione.

Finirei con una citazione della Daino tratta da un altro libro in prosa, Siamo soli [morirò a Parigi], che ho avuto la fortuna di leggere inedito, dove Chiara ci dice senza ambiguità cosa pensa realmente della scrittura:

«E avanzo con un piccolo scudo per sopportare il peso: una pagina che è coperta, è sacra, è calda. Una pagina serra. Una pagina resuscita. La pagina è sorella, è stirpe simile, perché è una pagina sola. E non è solo una pagina: è la sola che mi suturi… Ora siamo soli: tu mi leggi, io ti scrivo [sempre, anche se non mi rispondi]. Ti dedico tutte le mie parole: sai, io ho solo loro…»,

Qui è lo stile della Daino. Ma “stile”, come scrivevo nel mio Il ritardo della caduta, è «stilus», coltello.
Il fatto è semplice: questo autore è un raro animale della scrittura. Cercate di leggerlo: ne sarete arricchiti. Oggi le anime liriche sono tante, ma i veri, barbari poeti della prosa, pochi.
Un vero autore vive come un “sospeso dalla vita”. Gli artisti veri sono solo strumenti da cui passa l’energia della metamorfosi e della sovversione.
Lo scrittore Daino sostiene e sosterrà ancora la vita biologica di Chiara Daino. Cioè il “fantasma” della scrittura le infonderà vita. E spero per molto, molto tempo. Il tempo, per lei, di essere felice, come in questo giorno di festa. Il tempo, per noi, di godere altri suoi libri, eccellenti come questo, e chissà migliori di questo. Vi ricorderò che Chiara ha 30 anni, e invito gli scrittori presenti, me compreso, a ricordare cosa scrivevano nei loro 30 anni. Senza mai dimenticare che l’Allegria di Ungaretti fu scritta da un giovane di 28 anni. L’adultità non è necessariamente maturità, a volte è solo avvizzimento e vecchiaia.
“Ognuno canta con la sua voce, indossa la sua maschera, cammina con il suo passo. Ed è osando il proprio tono e non un altro, preso a prestito dalle tradizioni della letteratura, che la scrittura smette di essere inoffensiva e diventa energia pulsante e trasgressiva, diagramma spezzato di una febbre”.
Con queste parole, che scrissi nel 1989 come apocrifo di Ingeborg Bachmann, e che sono tratte dal mio libro Vite dettate, vorrei concludere questo mio piccolo homenaje a Chiara Daino. Il presente si riverbera nel passato, il passato nel presente. Così è (se vi pare). Un applauso a questo libro tragico e spassoso, alla sua autrice e anche al coraggioso editore. Chiudo con le parole di Chiara, che solo lei potrebbe avere scritto:

«Io sto morendo, ma quella puttana di Emma Bovary vivrà in eterno».

BOOKTRAILER [L’ERETISTA]

 

Ideato e creato dall’Artista Degen Barden
per l’Eretista [Sigismundus Editrice, 2011]: ecce Booktrailer!
E Dama ringrazia.

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